mercoledì 30 marzo 2016

Pinkish Black - Bottom of the Morning


Pinkish Black – Bottom of the Morning
(Relapse Records, 2015)

Svegliarsi la mattina e non vedere l’ora che torni la notte. Potersi nascondere negli angoli bui, anziché affrontare un’altra terrorizzante giornata uguale a tutte quelle che l’hanno preceduta e che la seguiranno. Bottom of the Morning è il risveglio di un depresso (o un triste omaggio al “lunedi mattina”) che si trascina strisciando tra immense pareti (di sintetizzatori). Viscoso, pesante, tetro e misterioso, possiede al tempo stesso l’anima degli Jesu e quella dei Goblin. Il duo texano (divenuto tale in seguito alla fine del progetto The Great Tyrant per il suicidio del bassista Tommy Atkins nel 2010) con il suo terzo disco disegna magistralmente uno scenario apocalittico che ricorda i migliori episodi della carriera cinematografica di John Carpenter. A differenza della musica degli Zombi quella dei Pinkish Black non è un’esplicita reinterpretazione in chiave moderna delle atmosfere degli horror del passato, ma trae spunto da questi ultimi per tratteggiare un’oscurità intima e avvolgente, tanto inquietante quanto protettiva. E’ in questo senso di apatia e autocompiacimento della propria stanchezza che sta lo splendore di Bottom of the Morning, disco in cui imponenti sintetizzatori avvolgono di nebbia ogni possibilità di lieto fine.
[R.T.]

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Pinkish Black – Bottom of the Morning
(Relapse Records, 2015)

Waking up in the morning and being unable to wait for the night to come back. Hiding in the dark corners, rather than facing another scary day like all the previous and following ones. Bottom of the Morning is the awakening of a depressed person (or a sad homage to the “Monday morning”) dragging himself, creeping amongst immense walls (of synths). Viscous, heavy, gloomy and mysterious, it owns at the same time Jesu’s soul and Goblin’s one. With its third album the Texan duo (arisen from the ashes of The Great Tyrant project after the suicide of bassist Tommy Atkins in 2010) draws an apocalyptic scenery reminiscent of the best episodes of John Carpenter's film career. Unlike Zombi's music, Pinkish Black's one it is not an explicit modern reinterpretation of the atmospheres of horror movies of the past, yet it is inspired by them to outline an intimate and enveloping darkness, so disturbing as protective.  The splendor of Bottom of the Morning hides in this sense of apathy and self-satisfaction of its own fatigue. An album in which massive synthesizers wrap any possibility of an happy ending into the thickest fog. 
[R.T.]

venerdì 25 marzo 2016

Kadavar - Berlin


Kadavar – Berlin 
(Nuclear Blast, 2015)

Il power trio, com’è implicito nella sua definizione, è sinonimo di potenza. Il power trio berlinese dei Kadavar non fa eccezione. E Berlin – loro terzo full lenght – è la quintessenza della potenza e del tiro. Rock’n’roll allo stato puro, le 11 canzoni che compongono l’album hanno radici ben salde negli anni 70, ma hanno tratto linfa anche delle sonorità più immediate degli anni ’80 e della pesantezza stoner dei ’90. Ma Berlin è tutto fuorché un album derivativo! Partendo dalla fuzzosa Lord of the Sky, passando per alcune groovosissime canzoni - come Last Living Dinosaur e Stolen Dream – e alcune perle blueseggianti – Pale Blue Eyes e The Old Man – per culminare infine con la quasi maideniana Into the Night, l’ultima fatica del trio teutonico è un album che vibra di una sua spiccata personalità e che non suona assolutamente come un revival di sonorità catchy e di filoni di larga fortuna. Il loro hard rock si nutre della sabbia del deserto, si lancia a tutta velocità sull’asfalto di grandi e solitarie strade americane, si bagna con fiumi di birra e strizza l’occhio ad avvenenti ragazze: c’è un grande senso di vitalità e voglia di divertirsi. Christoph “Lupus” Lindemann – chitarra e voce - e Christoph “Tiger” Bartelt – batteria – hanno trovato nel nuovo bassista Simon "Dragon" Bouteloup il tassello che era venuto meno con la dipartita di Philipp "Mammut" Lippitz nel 2010: un basso che è al tempo stesso quasi una seconda chitarra e un contraltare ritmico di tutto rispetto. Reich der Träume di Nico come bonus track è scelta ricercata e azzeccata per chiudere in modo oscuro e psichedeleggiante un album che ha lasciato davvero poco spazio a queste atmosfere occulte, essendo tutto improntato all’immediatezza ed energia sprigionata dalla formula magica di un power trio berlinese che sembra uscito fuori dalla California.
[E.R.]
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Kadavar – Berlin 
(Nuclear Blast, 2015)

Power trio – as implicit in its definition – is synonymous of energy and strenght. Berlin power trio Kadavar is no exception. And Berlin – their third full length – is the quintessence of power and groove. Pure rock’n’roll, the 11 tracks of the album have got deep roots in the 70s, and at the same time they drew the sap out of the more easy-listening sound of the 80s and the stoner heaviness of the 90s. Yet Berlin is no derivative album at all! Starting with the fuzzy Lord of the Sky, going through some super-groovy songs - Last Living Dinosaur and Stolen Dream – and some bluesy pearls – Pale Blue Eyes and The Old Man – to culminate with the almost maidenish Into the Night, the latest work of the Teutonic trio is an album with a distinct personality and it does not sound as a revival of catchy sounds and highly successful trends. Their hard rock feeds on desert sand, it launches itself at full speed on the asphalt of long, solitary American roads, it bathes in rivers of beer and it winks to beautiful girls: there is a great vitality and desire to have fun. Christoph “Lupus” Lindemann – guitar and voice - e Christoph “Tiger” Bartelt – drums – found in their new bassist Simon "Dragon" Bouteloup the piece they lost when Philipp "Mammut" Lippitz bailed out in 2010: a bass which is at the same time almost a second guitar and a remarkable rhythmic counterpart. Nico’s Reich der Träume as a bonus track is the right, sophisticated choice to close in a dark, psychedelic way an album that leaves really little space to these occult atmospheres, being all focused on the immediacy and energy unleashed by the magic formula of a berlin power trio which seems to come out of California.
[E.R.]

mercoledì 23 marzo 2016

Throneless - Throneless


Throneless – Throneless
(Heavy Psych Sounds, 2015)

Throneless, disco d’esordio dell’omonima band svedese, deve essere nato in una sala prove sotterranea, certamente non in uno studio di registrazione super attrezzato. Una sala prove allagata, con il trio costretto a suonare con il fango fino alle ginocchia. Per questo il suono esce limaccioso, denso e impastato. Pareti ammuffite, soffitto basso e opprimente, luce quasi assente. Un ambiente insalubre in cui una voce vomita da corridoi lontani. Forse è una sala prove di fortuna utilizzata in precedenza da un gruppo black metal old school. Certamente è un ambiente perfetto per riportare lo sludge metal alla sua scorrettezza primigenia. Pur suonando come una diretta emanazione dello sludge cosmico e atmosferico di Neurosis, Yob ed Electric Wizard, la spontaneità dei Throneless possiede un’anima terrena che ultimamente latita nell’ambiente. Una ventata d’aria (putrida) che non può che far bene a tutti gli appassionati dell’underground.
[R.T.]

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Throneless - Throneless
(Heavy Pysch Sounds, 2015)

Throneless, debut album of the homonymous Swedish band, must be born in an underground rehearsal studio: for sure not in a ultra-tech recording studio! A flooded rehearsal room with the band playing with the mud at the level of their knees. This has to be the reason why their sound is so thick, slimy and muddy. Musty walls, oppressive and low ceiling, almost no light at all. An unhealthy setting in which a voice vomits from remote corridors. Maybe a makeshift rehearsal studio formerly occupied by an old school black metal band. Surely the perfect location to bring sludge metal back to its primordial misbehaviour. Even though it sounds as a direct emanation of Neurosis, Yob and Electric Wizard cosmic, atmospheric sludge, Throneless spontaneity has got an earthly soul which nowadays is extremely rare. A breath of (putrid!) air that can only be cherished by lovers of the underground.
[R.T.]

domenica 20 marzo 2016

Disappears – Irreal


Disappears – Irreal
(Kranky Records, 2015)

Il lampeggiare ossessivo delle insegne di locali malfamati ci accompagna durante il viaggio con i Disappears attraverso una Chicago notturna e gelida. Una lenta traversata in auto tra i monolitici grattacieli di una metropoli alienante: questo è Irreal. Prima di disfarsi nella nebbia sporca di Navigating the Void, la musica ondeggia sinuosa e ammaliante negli angoli più oscuri della città, dove si nascondono desolazione e desiderio. C’è attrazione sessuale negli avvolgenti ritmi trip hop, ma questa è perversamente deviata dalle sbilenche melodie, che fotografano uno squallore onnipresente e inducono un malsano senso allucinatorio. Il richiamo più evidente è alla musica degli Swans più recenti, ma il tono spossato della voce di Brian Case non è apocalittico: è disilluso. Celate tra le nebbiose atmosfere darkwave ci sono sensazioni di disagio e angoscia generate da arpeggi dissonanti e strutture labirintiche ai limiti del krautrock. La produzione, affidata a John Congleton, enfatizza l’alienazione indotta dalla musica, amplificando all’infinito le spirali ritmiche e avvolgendo ogni lampo di umanità con una foschia di riverberi. La band dell’Illinois suona ipnotica, cupa, ossessiva, e con Irreal genera un magnetico incubo dal quale non sembra possibile risvegliarsi.
[R.T.]

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Disappears – Irreal
(Kranky Records, 2015)

Obsessive flashing of notorious club signboards escorts us during the trip with Disappears in the nocturnal and chilly Chicago. A long journey by car among the monolithic skyscrapers of an alienating metropolis: this is Irreal. Before dissolving into the dirty fog of Navigating the Void, music waves sinuous and charming in the darkest corners of the city, where desolation and desire hide. There is sexual attraction in the enveloping trip hop rhythms, yet this is perversely deviated by crooked melodies photographing an ubiquitous squalor and inducing an unhealthy hallucinatory feeling. The most obvious reference is the recent music by Swans, but the exhausted tone of Brian Case's voice is not apocalyptic: it is disillusioned. Hidden among the misty darkwave atmospheres there are feelings of discomfort and distress, generated by dissonant arpeggios and mazy structures at the borders of krautrock. Entrusted to John Congleton, production emphasizes the alienation induced by music, endlessly amplifying the rhythmic spirals and wrapping each flash of humanity with a haze of reverb. The Illinois band plays hypnotic, dark, obsessive and, with Irreal, it generates a magnetic nightmare from which it seems impossible to awaken.
[R.T.]

giovedì 17 marzo 2016

Sasquatch – 11.03.2016 – Cafè Albatross (Pisa)



Sasquatch – 11.03.2016 – Cafè Albatross (Pisa)


Il bello dei locali piccoli è quel senso di “intimità” che riescono a trasmettere all’esperienza live. Parlando dei Sasquatch al Cafè Albatross, il senso di intimità diventa una vera e propria sensazione fisica, fatta del sudore e dei colpi su corde e pelli che il trio di Los Angeles letteralmente riversa su un pubblico dalla faccia appiccicata alle loro sul palco (sì, perché il palco sarà alto sì e no 30 cm, e quindi la fusione band/pubblico è totale). In una sola ora di musica, in una piccola stanza dalle pareti nere (tappezzate di copertine di cd, locandine di film e una spessa tenda di velluto rosso alla Twin Peaks), in una città umida e piovosa, Keith Gibbs, Jason Casanova e Craig Riggs (alla batteria, al posto di Rick Ferrante, per il tour europeo)riescono a trasportare tutti i presenti nel caldo secco e polveroso del deserto californiano, sperduti su di una distesa di terra rossa, sotto un sole accecante. Il basso – suono pieno e riff magmatici, a tratti serrati, a tratti dilatati - è la spina dorsale di uno potente stoner kyussiano che fa oscillare teste e corpi in perfetta fusione col suo groove. Chitarra e voce hanno il sapore di troppo alcool e troppo “fumo” e ti alleggeriscono la testa, che intanto segue il ritmo trascinante della batteria. I Sasquatch, poi, sembrano, essere a casa loro e interagiscono costantemente col pubblico. La sensazione è quasi quella di una festa, mentre stai sentendo i tuoi amici che suonano. I Sasquatch spaccano, l’Albatross è la location ideale, l’atmosfera è quella giusta. Ci vorrebbero davvero più concerti come questo a Pisa!
[E.R.]
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Sasquatch – 03.11.2016 – Cafè Albatross (Pisa)

One of the greatest aspects of the small clubs is that sense of “intimacy” they transfer to the live experience. Talking about Sasquatch at the Cafè Albatross, the sense of intimacy becomes a proper physical sensation, made of the sweat and hits on strings and drumheads that the trio from Los Angeles pours over an audience with its face stuck to theirs on stage (well, the stage is more or less 30 cm high, and so there is a complete fusion of band and audience). In just one hour of music, in a small hall with black walls (covered with movie posters, cd covers and a thick red velvet Twin Peaks-like curtain), in a wet rainy town, Keith Gibbs, Jason Casanova e Craig Riggs (on drums in place of Rick Ferrante for the European tour) succeed in carrying all the participants into the dry, dusty warm of the Californian desert, lost on a flat field of red soil, under a dazzling sun. The bass – with its rich sound and its magmatic riffs, at times serried, at times dilated – is the backbone of a mighty Kyuss-like stoner that makes heads and bodies swing and oscillate in perfect union with its groove. Guitar and voice have got the taste of too much alcohol and too much “smoke” and they lighten the head that in the meanwhile is following the enthralling rhythm of the drums. And besides, Sasquatch seem to feel right at home and they constantly interact with the audience. The general feeling is that of a party, listening to friends playing with their band. Sasquatch really kicks ass, the Cafè Albatross is the ideal location, the atmosphere is the right one. Pisa definetely needs more concerts like this!
[E.R.]

lunedì 14 marzo 2016

Windhand - Grief's Infernal Flower


Windhand – Grief’s Infernal Flower
(Relapse Records, 2015)

Ci sono dischi che nascono per essere ascoltati a tutto volume. Merito delle distorsioni - talmente grasse da saturare l’aria - oltre che dei riff che si ripetono all’infinito, sorreggendosi su ritmiche cadenzate e robuste. Se dal magma sonoro appare una voce femminile talvolta onirica come quella di un gruppo shoegaze, talvolta stanca, sfibrata e allucinata come quella degli Alice in Chains, capiamo che l’alto volume serve ad accentuare non solo la potenza sprigionata, ma anche lo stordimento. Parte del merito spetta certamente al lavoro di produzione di Jack Endino, ma è indubbio che con Grief’s Infernal Flower i Windhand - grazie ad una componente psichedelica e "alternative rock" non indiffernete - aggiungono nuove sfumature ad un doom metal figlio degli Electric Wizard. Se musicalmente la band della Virginia ricalca le odi al demonio dalle fattezze caprine tanto caro al genere, la voce di Dorthia Cottrell è una candela che luccica tremolante nel marasma fangoso, regalando nuove prospettive agli amanti di queste sonorità. Tra i colossali macigni si scavano uno spazio anche due frammenti acustici in cui il volume si abbassa lasciando spazio all’intimità, con il risultato di accentuare la granitica pesantezza del resto dell’album.
[R.T.]
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Windhand – Grief’s Infernal Flower
(Relapse Records, 2015)

There are albums born to be played at maximum volume. It is thanks to the distortions - so fat as to saturate the air - as well to the riffs repeating themselves endlessly, supporting themselves on cadenced, sturdy rhythmic. Sometimes so dreamlike as the one of a shoegaze band, sometimes weary, exhausted, hallucinated as Alice in Chains one, from the sonic magma a female voice appears and we understand that the high volume not only increases the unleashed power, yet it enhances also the daze. Surely the production by Jack Endino has a fundamental role, yet it is glaring that with Grief’s Infernal Flower Windhand - thanks to a significant psychedelic and "alternative rock" component - add new shades to a doom metal son of Electric Wizard one. If the band from Virginia musically tracks the odes of the goat-shaped demon so dear to the genre, Dorthia Cottrell voice is a flickering candle shining in the muddy chaos, giving new perspectives to the lovers of these sounds. Among the colossal boulders, two acoustic fragments dig a slit in which the volume is lowered, leaving space to intimacy, with the result of emphasizing the granitic heaviness of the rest of the album.
[R.T.]

sabato 12 marzo 2016

Calibro 35 + Le Capre a Sonagli – 05.03.2016 – The Cage Theatre (Livorno)


Calibro 35 + Le Capre a Sonagli – 05.03.2016 – The Cage Theatre (Livorno)

La mèta della serata è il concerto di un gruppo da colonna sonora poliziottesca…quindi inseguimenti a manetta. Ecco, non proprio: la nostra serata inizia con una fantastica ruota a terra...ironia della sorte? Aggirato in qualche modo il problema – che ci fa perdere un po’ di tempo e ci fa anche un po’ incazzare – arriviamo comunque a destinazione.

L’opening act è – purtroppo – maledettamente già in corso, ma il rock ipercinetico, rumoroso, un po’ folle de Le Capre a Sonagli fa girare le cose nel verso giusto e ci fa sbollire la seccatura del ritardo. Con il suo approccio divertente e diverito, la band combina una sezione ritmica elastica e funkeggiante con chitarre (una elettrica, una acustica) deliranti su accordi dissonanti, feedbacks e melodie sghembe. Riusciamo a sentire solo 20 minuti, ma le premesse sono ottime e speriamo quindi di vederli presto in un loro concerto ”intero”.

Terminata la pausa fra il cortometraggio ed il lungometraggio, ecco iniziare il film immaginario di cui i Calibro 35 propongono l’ideale colonna sonora. Un B-movie fantascientifico di fine anni 60/inizio anni 70, in cui i sintetizzatori rubano il ruolo cui in passato erano deputate le chitarre, pur mantenendo protagonisti basso e batteria. Quarantacinque minuti di funky psichedelico incentrati sull’ultimo album, in cui la band milanese mostra la sua splendida nuova incarnazione. Dinamico e divertente come ogni altra “pellicola” della band, S.P.A.C.E. è probabilmente ancor più ricercato e originale, con le sue atmosfere spaziali che dal vivo risultano ancor più dilatate che su vinile, e che perfettamente si innestano tra le strutture movimentate dei brani. In apertura e chiusura del primo tempo outtakes di film di genere: super-cult lo spezzone finale, tratto da Omicron di Ugo Gregoretti (1963), con l’assurdo-grottesco dialogo di due extraterrestri sulla pratica tutta umana e primitiva di “entroscucchiare”! 
Il secondo tempo è dedicato al meglio dello “spaghetti-funky” grazie al quale i Calibro 35 possono essere considerati i capofila del revival poliziottesco degli ultimi anni. Fantasiosi, coinvolgenti e vagamente noir come i migliori film di Di Leo, fanno convivere lo sguardo beffardo di Tomas Milian in Milano Odia: la Polizia non può Sparare e quello malvagio di Gian Maria Volontè in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto con l’ironia dei film di Maurizio Merli.
Un concerto superlativo, che esalta il numeroso pubblico del The Cage e conferma i Calibro 35 come una delle migliori band in circolazione sui palchi italiani.
[E.R. + R.T.]

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Calibro 35 + Le Capre a Sonagli – 03.05.2016 – The Cage Theatre (Livorno)

The destination of this night is the concert of a poliziottesco soundtrack band…so car chases at full throttle. Well, this is not exactly the case: our night starts with a flat tire indeed…ironically enough, isn’t it? Somehow we fixed the problem – a time waste which makes us feel a bit pissed-off! – and we rich the venue.

Sadly the opening act is already going on, but the hyperkinetic, noisy, a bit weird rock of Le Capre a Sonagli makes things getting better and we soon forget the hassle of the delay. Entertaining and funny, the band combines a funky, frisky rhythmic section with delirious guitars (one electric, the other acoustic) fluttering with dissonant chords, feedbacks and crooked melodies. We listen to only 20 minutes of their show, yet the premises are great and so we really hope to attend very soon to one “full” concert.

When the break between the short and the feature film is over, here it starts the imaginary movie of which Calibro 35 perform the ideal soundtrack. A late 60s/early 70s sci-fi B-movie, in which synths get the main role formerly prerogative of guitars, yet keeping bass and drums as leading actors. Forty-five minutes of psychedelic funky focused on the latest album, in which the band from Milano shows its splendid new incarnation. Dynamic and amusing as all the other “films” of the band, S.P.A.C.E.  is probably even more original and refined, with its space atmospheres which sound even more dilated in the live performance than on vinyl and that perfectly fit into the lively structure of the songs. In opening and closing of the first part, outtakes from film di genere: super-cult the final excerpt, from Omicron by Ugo Gregoretti (1963), with the grotesque/absurd dialogue between two aliens on the human, primitive use of “entroscucchiare”!
The second part is dedicated to the best of the “spaghetti-funky” whereby Calibro 35 can be considered as leaders of the poliziottesco revival of the last years. Fanciful, engaging, vaguely noir as the best movies by Di Leo, they bring together Tomas Milian’s mocking glance in Milano Odia: la Polizia non può Sparare and Gian Maria Volonté wicked eyes in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto with the irony of Maurizio Merli’s movies.
A superb concert, exalting the large audience of The Cage and confirming Calibro 35 as one of the best bands on Italian stages nowadays.
[E.R. + R.T.]

martedì 8 marzo 2016

La Piramide di Sangue + Le Porte non Aperte + Sulfur (in acustico) – 04.03.2016 – No Cage (Prato)


La Piramide di Sangue + Le Porte non Aperte + Sulfur (in acustico) – 04.03.2016 – No Cage (Prato)

Se il No Cage ospita spesso alcuni dei migliori gruppi underground in circolazione, un motivo ci deve essere – e sono sicura che non è solo l’ottimo buffet vegan ad inizio serata! L’aspetto spoglio dello stanzone “da festa delle medie” e il piccolo palco in fondo alla sala (i 7 de La Piramide di Sangue devono aver assoldato uno stratega di Tetris per studiare la loro disposizione!) sono la classica copertina da non considerare per valutare il libro: i suoni delle band escono benissimo e l’impatto del live c’è tutto!

La serata è aperta da una delegazione ridotta dei Sulfur - Asmodeus e Dyonisos, rispettivamente chitarrista e cantante della band fiorentina – che per l’occasione presenta un set “acustico” (la chitarra è comunque quella elettrica), circondata dalle luci soffuse delle candele. In questa versione, il loro doom metal sepolcrale assume quasi le forme di un rito esoterico, e fluttua liberamente al di là della forma canzone. Gli arpeggi di chitarra evocano profondità abissali dalle quali si affaccia l’intensa e versatile voce di Dyonisos. Ancor di più delle innegabili doti tecniche del duo, quello che colpisce è l’atmosfera della loro musica, tanto tetra quanto onirica. Molto di più di un esperimento, questa versione dei Sulfur merita davvero di essere approfondita!

Segue il rock progressivo de Le Porte non Aperte. Chiaramente ispirato ai classici del prog anni ’70 (Banco del Mutuo Soccorso in primis), non lascia particolarmente il segno a causa di canzoni un po’ troppo frammentarie e melodie poco coinvolgenti.

Quando ormai siamo quasi all’una di notte, La Piramide di Sangue trasfigura il No Cage in un deserto sabbioso dominato dalle ombre di un mondo antico. L’ipnotica forza ritmica, quasi tribale, della sinergia di batteria, due bassi e percussioni varie, e la potenza onirico-esoterica delle melodie del clarinetto di Stefano Isaia (aka Gianni Giublena Rosacroce) evocano un mondo parallelo tanto affascinante quanto stordente. Aiutati anche da proiezioni a tema principalmente egizio, ci si ritrova immersi in atmosfere mediorientali, tra psichedelia e kraut rock, fra dune di ispirazione etnica e granelli di sabbia free jazz e noise. Se i brani catturano già su vinile, la dimensione live amplifica il loro magnetismo. E se a questo si aggiunge la bravura di tutti e sette i musicisti, il risultato è un concerto davvero notevole: un’esperienza che nessun amante di certe sonorità dovrebbe permettersi di perdere!

[E.R. + R.T.]

 
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La Piramide di Sangue + Le Porte non Aperte + Sulfur (acoustic set) – 03.04.2016 – No Cage (Prato)

There is a reason why No Cage is the venue chosen by many really interesting undergroung bands – and for sure this is not due to the tasty vegan buffet! The bare “highschool-party-hall” look and the small stage at the end of the lounge (the 7 members of La Piramide di Sangue had to engage a Tetris strategist to get their arrangement on stage) are the classical cover which can not be considered in order to judge the book: sounds are great as much as the live impact!

A reduced delegation of Sulfur – Asmodeus and Dyonisos, respectively guitarist and singer of the band from Florence – opens the evening with an “acoustic” set (guitar is electric, anyway), surrounded by the dim light of candles. In this version, their sepulchral doom metal becomes a sort of esoteric ritual, freely floating beyond the classic song structure. Guitar arpeggios evoke abyssal dephts from which intense, versatile Dyonisos’ voice emerges. Even more than the undoubted technical qualities of the duo, the atmospher of their music – as much gloomy as dreamlike – is what really impresses the listener. Far from being a mere “experiment”, this new vest of Sulfur deserves further consideration!

Then the progressive rock of Le Porte non Aperte. Clearly ispired by the big names of 70s prog (Banco del Mutuo Soccorso above all), they are not too much impressive – maybe because of too fragmented song and not so engaging melodies.

When it is almost one o’clock a.m., La Piramide di Sangue transfigures No Cage in a dusty desert dominated by the shadows of an ancient world. The hypnotic, almost tribal, rhythmic force of the synergy of drums, two basses and many different percussions, and the oneiric-esoteric power of the melodies of Stefano Isaia’s (aka Gianni Giublena Rosacroce) clarinet evoke a parallel world – as much fascinating as stunning. Also thanks to the video projections focused on Egyptian themes, you find yourself immersed in Middle Eastern atmosphere, halfway between psychedelia and kraut-rock, amongst dunes of ethnic inspiration and sand grains of free jazz and noise. If their songs captivate the listener on vinyl, live dimension amplifies their magnetism. And if you add to this the talent of the 7 musicians, the result is a really amazing concert: an experience that no lover of these sounds should ever miss!

[E.R. + R.T.]





domenica 6 marzo 2016

Turbomatt - Only Mountains are Real


Turbomatt - Only Mountains are Real
(ExLab Records, 2016)

Il rock desertico dei Turbomatt libera la mente. Rilassa i muscoli. Scioglie la tensione. È una medicina naturale, probabilmente a base di qualche droga leggera. Ha l'andamento un pò indolente, lo spirito sereno e il lieve rallentamento percettivo di chi ha appena fumato. Con Only Mountains are Real la band abruzzese si lascia andare a brani strumentali privi di qualsiasi ridondanza, ridotti all'osso fino a suonare lo-fi. Sembra di vedere J Mascis all'inizio della sua carriera (quando la sua band si chiamava ancora Dinosaur, senza Jr.), intento a jammare con gli Yawning Man nello sconfinato altopiano di Campo Imperatore. Se a tratti le composizioni possono risultare poco fluide, è però innegabile il fascino delle atmosfere, vagamente psichedeliche e polverose. C’è il senso di libertà dei cavalli allo stato brado nello stoner rumoroso e ondulante di Sidecar, Kerosene e della title track. Così come c’è la pace dei tramonti al cospetto del Gran Sasso in Kublai Khan. O il fuoco acceso nella notte nell’ipnotica e sciamanica Nosferatu. Un disco tutto da fumare.
[R.T.]

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Turbomatt - Only Mountains are Real
(ExLab Records, 2016)

Turbomatt desertic rock releases the mind. It relaxes muscles. It dissolves tension. It is a natural medicine, probably composed by some soft drug. It owns the lazy gait, the serene spirit and the slight perceptive slowdown of whom has just smoked. In Only Mountains are Real the band from Abruzzo dedicates itself to instrumental songs bare of every sort of redundancy, so much essential to sound lo-fi. It seems to see J Mascis at the beginning of his career (when his band was still called Dinosaur, without Jr.) playing a jam with Yawning Man in the Campo Imperatore boundless plateau. If at times songs can lack of a bit of fluidity, yet it is undeniable the fascination of the atmospheres - vaguely psychedelic and dusty. There is the sense of freedom of the wild horses in the noisy and undulant stoner rock of Sidecar, Kerosene and the title track. As there is the peace of sunsets in sight of Gran Sasso in Kublai Khan. Or the fire burning in the night in the hypnotic and shamanic Nosferatu. An album to be smoked.
[R.T.]


sabato 5 marzo 2016

John Holland Experience - John Holland Experience


John Holland Experience – John Holland Experience

(DreaminGorilla Records, Taxi Driver Records, TADCA Records, Electric Valley Records, Scatti Vorticosi Records,
Brigante Records, Longrail Records, Edison Box Records, Omoallumato Records, 2016)

Prendi un pò di blues, un pò di garage, un pò di rock’n’roll, un pò di stoner e un pizzico di punk-rock melodico: mischia tutto insieme e aggiungi uno scanzonato cantato in italiano ed eccoti servito il primo omonimo album dei John Holland Experience. Otto canzoni che scorrono veloci come veloci si scolano le birre al bancone di un pub. È un susseguirsi di riff catchy con un gran bel tiro che rallenta solo a tratti per lasciare spazio ad alcune dilatazioni di sapore tipicamente blues, con qualche sfumatura desert (Intro, Revival, Canzone d’amore, Tieni Botta). Basso e batteria sono le colonne portanti del trio cuneese: i riff del primo creano la linea melodica e la struttura ritmica cui la seconda aggiunge ulteriore potenza e tiro. La polverosa, calda, distorsione della chitarra e la voce leggermente sporca, dall’incedere allusivo (a tratti quasi ruffiano), completano il quadro. Tieni Botta, ballatona stoner-blues arricchita dal cantato potentemente roco - da bluesman - dello special guest Davide Musizzano è la chicca dell’album. Così come l’artwork di SoloMacello è la sua azzeccata veste. Ora non resta che sentirli live!
[E.R.]
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John Holland Experience – John Holland Experience 

(DreaminGorilla Records, Taxi Driver Records, TADCA Records, Electric Valley Records, Scatti Vorticosi Records,
Brigante Records, Longrail Records, Edison Box Records, Omoallumato Records, 2016)

Take a bit of blues, a bit o garage, a bit of rock’n’roll, a bit of stoner and a pinch of melodic punk-rock: mix everything together, add easy-going Italian vocals and here it is the first homonymous John Holland Experience album. Eight songs flowing as quickly as beers in a pub. Catchy riffs with great, enthralling impact which slow down only at moments for some tipically bluesy dilations, with a hint of desert sound (Intro, Revival, Canzone d’amore, Tieni Botta). Bass and drums are the pillars of the trio from Cuneo: riffs of the first create the melodic line and the rhythmic structure to which the second adds extra power. The dusty, warm distortion of the guitar and the slightly dirty voice, with its allusive gait, make the rest. Tieni Botta, stoner-blues ballad enriched by the powerfully hoarse – bluesman style – voice of special guest Davide Musizzano is the jewel of the album. As much as the artwork by Solo Macello is its right, apt dress. Now you just have to listen to them live!
[E.R.]

mercoledì 2 marzo 2016

La Piramide di Sangue - Sette


La Piramide di Sangue – Sette
(Sound of Cobra, Boring Machines, 2014)

Gli incantatori di serpenti non sono certo uno dei tratti distintivi di una città grigia e industriale come Torino. Ma Torino è anche città italiana dell'occulto e dell'esoterico per eccellenza. Forse è proprio per questa sua doppia natura che il capoluogo piemontese è culla di incantatrici melodie di clarinetto che conducono verso il medio oriente. Il tortuoso percorso intrapreso da La Piramide di Sangue segue i sapori delle spezie e i fumi dei narghilè, ricordando le esplorazioni dei primi anni settanta dei tedeschi Agitation Free e degli italiani Aktuala. Attraverso 7 brani strumentali, i 7 musicisti compiono un viaggio affascinante, al tempo stesso ricco di energia e di misticismo, con la leggerezza di chi, pur inoltrandosi lungo nuovi sentieri, conosce l’obiettivo della sua esplorazione, per quanto questa sia lontana dal luogo d’origine. Non ci troviamo in territori vergini e incontaminati, ma non per questo stiamo seguendo orme già tracciate in passato. Nonostante gli stordenti fumi allucinogeni che avvolgono le composizioni, il nucleo melodico è sempre a fuoco e come una negromante ci induce a seguirlo fino a portarci nel cuore del deserto africano. A tratti freneticamente funky come gli svedesi Goat (ma con un senso dell’ironia più sottile) più spesso ipnotici come gli americani OM, La Piramide di Sangue si dimostra, al suo secondo disco, una delle realtà più interessanti del panorama psichedelico odierno.
[R.T.]

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La Piramide di Sangue – Sette
(Sound of Cobra, Boring Machines, 2014)

Snake charmers are certainly not one of the main features of a grey, industrial city like Turin. Yet Turin is also the Italian occult and esoteric city par excellence. Maybe it is exactly for this double nature that Piedmont chied town is the cradle of the bewitching clarinet melodies leading to the Middle East. The tortuous path taken by La Piramide di Sangue follows the flavours of the spices and the smoke of the hookah, recalling the explorations of the German Agitation Free and Italian Aktuala in the early seventies. Through 7 instrumentals songs, 7 musicians perform a fascinating journey, at the same time full of energy and mysticism, with the lightness of those who - while entering along new paths - know the purpose of their exploration, though this is far from the place of origin. We are not in virgin and unspoilt areas, nonetheless we are not following the footsteps already traced in the past. Despite stun hallucinogenic fumes enveloping the compositions, the melodic core is always in focus and, as a necromancer, it invites us to follow it to the heart of the African desert. Sometimes frantically funky as the Sweden Goat (yet with a more subtle sense of irony), more often hypnotic as the Americans OM, in its second album La Piramide di Sangue proves to be one of the most interesting band of today's psychedelic scene.
[R.T.]