domenica 29 gennaio 2017

Monsternaut + Room 6 - 15.12.2016 - Ganz of Bicchio (Viareggio, LU)


Monsternaut + Room 6 – 15.12.2016 - Ganz of Bicchio (Viareggio, LU)

Saltate tutte le date spagnole del loro tour europeo, i finlandesi Monsternaut ripiegano sull’Italia e a sorpresa salta fuori un concerto “last minute”, proprio nella nostra zona.

Room 6 in apertura. Se in occasione del loro concerto di spalla ai Karma to Burn si erano rivelati in grado di miscelare forza e pesantezza hard rock/stoner con melodie e arrangiamenti progressive, in quest’occasione suonano ancor più carichi, oltre che più fluidi e precisi. Ottima conferma!

Tocca poi ai finlandesi e la minuscola sala del Ganz of Bicchio si ritrova saturata dalla distorsione della chitarra dei Monsternaut, che romba come una moto di grossa cilindrata, mentre la sezione ritmica tiene l’acceleratore del groove a manetta. Veniamo lanciati a tutta velocità lungo autostrade infuocate che tagliano deserti selvaggi, con capelli al vento e aria di libertà nei polmoni. La strada percorsa è la stessa aperta dai Fu Manchu a metà anni 90, ma l’energia sprigionata dal trio di Kerava è talmente travolgente da mettere assolutamente in secondo piano qualsiasi paragone, per quanto questo sia evidente. Un basso roboante (di scuola Motörhead), una batteria essenziale (quasi punk, che valorizza l’accelerazione del 4/4 con il piatto del charleston sempre aperto) e una chitarra grassa e sporca (che puzza di diesel). Cosa volere di più? Canzoni che premono il freno solo per qualche mastodontico rallentamento sabbattiano, ma che più spesso schiacciano sull’acceleratore con un‘energia sfrenata e prepotente.
Concerto “a sorpresa” per chiudere alla grande quest’annata concertistica ricca ed esaltante!
[R.T.]
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Monsternaut + Room 6 – 12.15.2016 - Ganz of Bicchio (Viareggio, LU)

Cancelled all the Spanish concerts of their European tour, Finnish Monsternaut look to Italy and suddenly we have a “last minute” gig exactly in our area.

Room 6 as opener. If last July (supporting Karma To Burn) they proved to be capable of mixing together hard rock/stoner heaviness and progressive melodies, tonight they sound even groovier, and also more precise and fluid. Great confirmation!

Then it is the turn of the Finnish and Ganz of Bicchio minuscule hall is saturated by Monsternaut guitar distortion, roaring like a huge motorbike, while the rhythm section keeps the groove accelerator at full throttle. We are launched at full speed along blazing highways that cut through wild deserts, with windblown hair and freedom in our lungs. The road is the same open by Fu Manchu in mid-90s, but the energy released by Kerava trio is so overwhelming to put completely into the background any comparison, though this is almost plain. A roaring bass (Motörhead school), an essential drum (almost punk, enhancing the acceleration of 4/4 with the hi-hat always open) and a fat dirty guitar (which stinks of diesel). What do you want more? Songs pushing the brake only for some mammoth sabbathian slowdown, but more often crushing the accelerator with unrestrained overpowering energy.

A "by surprise" concert to close in the best way possible this rich exciting musical year!
[R.T.]

giovedì 26 gennaio 2017

Boris + Geeah – 03.12.2016 - The Cage Theatre (Livorno)


Boris + Geeah – 03.12.2016 - The Cage Theatre (Livorno)

Ai tempi della sua uscita, nel 2006, rimasi deluso da Pink. Conoscevo i Boris per i muri di suono di Absolutego e per le liquide melodie di Flood e non ero per niente preparato alla destrutturazione dello stoner rock operata dal trio giapponese nel suo disco rosa. Mentre mi stavo innamorando delle trasformazioni operate dagli altri nomi importanti del noise più pesante e ossessivo (Earth, Sunn O))), Nadja, Jesu…) Pink mi sembrò un’assurda presa in giro. Negli anni Pink è diventato uno dei dischi più apprezzati della band nipponica al punto che, dieci anni dopo la sua pubblicazione, il gruppo dedica un tour a quello che ormai viene considerato un “classico”. Il tempo mi ha dato torto, ma ora mi offre una seconda possibilità. 

In apertura, sul palco del Cage, ci sono i Geeah. La band livornese pesta pesante fin da subito, con il suo stoner rock intriso di metallo. Riff massicci che ricordano Down, Kyuss e Corrosion of Conformity, sui quali spicca la voce potente e rabbiosa di Marco Lo Presti. Il cantante è l’arma in più del gruppo toscano, che si dimostra carico a mille sia nei momenti più diretti e tirati, sia in quelli più rallentati e pesanti.

E’ poi il turno dei giapponesi. Si sa, i nipponici hanno un gusto perverso per l’estremo e non amano le mezze misure. I Boris, in questo, sono nipponici fino al midollo. Stasera dimostrano quanto sia possibile avvicinare la sperimentazione rumorista alla canzone rock, ma certamente non con l’intento di rendere più appetibile uno dei due mondi agli occhi degli appassionati dell’altro, bensì per destabilizzarli entrambi. Da una parte devastano le melodie con droni mastodontici, cascate di feedback, dissonanze a raffica e voci "stonate". Dall’altra rendono godibile e orecchiabile il magma rumoroso con riff stoner, atmosfere malinconiche di matrice post rock e aperture melodiche sognanti. I tre stasera si divertono (per quanto possano apparire divertite le espressioni apatiche di Wata – chitarrista - o quelle da serial killer di Atsuo – batterista) a rendere una musica calda e rotonda come lo stoner rock niente più che un gelido esperimento sul tavolo del loro laboratorio. La chitarra stracarica di fuzz è una macchina generatrice di groove, ma questo viene volutamente smorzato dal suono meccanico della batteria e da un cantato sbilenco e disarmonico (al quale fanno da rinforzo gli assurdi versi di giubilo di Atsuo, che paiono provenire da un anime). Quando però anche Takeshi impugna il manico della sei corde, anziché quello del basso, si forma un vortice magnetico irrefrenabile dal quale è difficile svincolarsi, e il groove ha davvero il sopravvento. Un attimo dopo, poi, le vibrazioni monolitiche delle distorsioni ondeggiano nell’aria come nebbia densissima, e tra queste si fa breccia il suono del gong. L’avvicinamento di mondi distanti, la frenesia con la quale questi si fondono gli uni negli altri. Nell’assurdità di questo incontro sta la peculiarità di Pink. A dieci anni di distanza, per me è ancora difficile farmi un’idea precisa su questo capitolo della lunga e variegata carriera dei Boris. Folle, a tratti bellissimo, a tratti dissacrante. Estremo. E indecifrabile. 
[R.T.]
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Boris + Geeah – 03.12.2016 - The Cage Theatre (Livorno)

At the time of its release, in 2006, I was disappointed by Pink. I knew Boris for Absolutego walls of sound and Flood liquid melodies and I did not expect the deconstruction of stoner rock made by the Japanese trio in their pink album. While I was falling in love with the transformations made by the other big names of the heavier and more obsessive noise rock (Earth, Sunn O))), Nadja, Jesu ...) Pink seemed to me an absurd joke. Over the years Pink has become one of the most popular records by the Japanese band to the point that, ten years after its release, the band dedicates a tour to what is now considered a "classic". Time has proved me wrong, but now it gives me a second chance. 

As opener, on the stage of the Cage, there are Geeah. From the very beginning the band from Livorno kicks the ass with its stoner rock infused with metal. Massive riffs that remind Down, Kyuss and Corrosion of Conformity, on which Marco Lo Presti powerful and angry voice stands out. The singer is the secret weapon of the Tuscan group, which proves to be super-mighty both in the most direct and fast moments, as in the slower and heavier ones.

Then, it is the time for the Japanese band. You know, Japaneses have got a perverse taste for the extreme and they do not like half measures. In this regard, Boris are Japanese in all respects. Tonight they show how it is possible to approach the noisy experimentation to rock songs. Certainly with no intention to make one of the two worlds more attractive to the eyes of the fans of the other: yet to destabilize both of them. On the one hand they devastate melodies with mammoth  drones, falls of feedbacks, blasts of dissonances and "off-key" voices. On the other they make this noisy magma enjoyable and catchy thanks to stoner riffs, melancholic post rock atmospheres and dreamy melodic openings. Tonight the three have fun (as much as the apathetic expressions of Wata - guitarist - or those ones similar to a serial killer ones of Atsuo - drummer - could appear amused) to make stoner rock nothing more than a cold experiment on their laboratory table. The overloaded fuzzed guitar is a machine generating groove, yet this one is deliberately dampened by the mechanical sound of the drums and by a disharmonic and crooked singing (enhanced by the absurd jubilant screams by Atsuo, which really seems to come out of an anime). But even when Takeshi grabs the handle of his six strings, rather than that of his bass, a magnetic unstoppable vortex takes shape and it is difficult to disengage from it. And the groove really prevails. A moment later, the monolithic vibrations sway in the air like dense fog, and among them the sound of the gong fins its way through. The approaching of distant worlds, the frenzy with which they blend into each other. In the absurdity of this meeting lies the peculiarity of Pink. A decade later, it is still difficult  to me to have a clear idea on this chapter of the long variegated Boris career. Crazy, sometimes beautiful, sometimes irreverent. Extreme. And indecipherable.
[R.T.]



martedì 24 gennaio 2017

Monkey 3 - 02.12.2016 - Cafè Albatross (Pisa)


Monkey 3 - 02.12.2016 - Cafè Albatross (Pisa)

Come racchiudere lo spazio (siderale) in una stanza. Questo è il live dei Monkey 3. Se la loro musica è già altamente "cosmica" su disco, è sicuramente dal vivo che questa loro natura trova la sua massima e più compiuta espressione. Assecondati in questa astrazione dalle continue proiezioni sullo sfondo del palco e sulla cassa della batteria, è in realtà il flusso sonoro stesso della band a rendere possibile questo viaggio. La chitarra di Boris è un po' l'equivalente a 6 corde del flauto del favolistico pifferaio magico dei Grimm. Le sue linee melodiche (enfatizzate da un uso capillare e mai banale degli effetti) piegano al loro comando tanto gli altri strumenti, quanto noi ascoltatori - letteralmente rapiti nel caleidoscopio sonoro che ci avvolge. Stupende le canzoni estratte dall'ultimo Astrasimmetry, ma in generale non c'è un solo cedimento di atmosfera nell'intera (intensa) scaletta. Le tastiere sono il solvente in cui si disciolgono le onde ritmiche - fluide, ipnotiche, a tratti prog - di basso e batteria. Non ci sono sbavature, l'onda sonora è compatta e sinuosa ad un tempo. Psichedelia pura, che pur partendo dalle sorgenti sessantiane, ha il suo corso nelle sonorità degli anni '90/'00 e punta verso mari lontani. Un viaggio da non farsi sfuggire, che non può rimanere ristretto nei solchi di un vinile.
[E.R.]
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Monkey 3 - 12.02.2016 - Cafè Albatross (Pisa)

To enclose (sidereal) space in a room. This is Monkey 3 live. If their music is already highly "cosmic" on recordings, concerts are definitely what gives to their nature its highest and most complete expression. Supported in this abstraction by the continuous videoprojections on the background of the stage and on the kick drum, it is actually the sound flow of the band to make this trip possible. Boris guitar is the 6 strings equivalent of the Pied Piper  flute of the Grimm fairytale. His melodic lines (emphasized by a capillary and never banal use of effects) bend at their command so much the other instruments as we listeners - literally enraptured in the sound kaleidoscope surrounding us. Stunning the songs from the latest Astrasimmetry, but overall there is not a single failure in the atmosphere of the entire (intense) setlist. Keyboards are the solvent in which the flowing, hypnotic, sometimes prog rhythmic waves of bass and drums dissolve themselves. There are no smudges, the sound wave is compact and sinuous at a time. Pure psychedelia which, though starting from 60s springs, runs its course in the sounds of the 90s/00s and points to faraway seas. A trip not to be missed, which can not remain restricted in the grooves of a vinyl record.
[E.R.]


venerdì 20 gennaio 2017

Nick Cave & The Bad Seeds – Skeleton Tree


Nick Cave & The Bad Seeds – Skeleton Tree
(Bad Seed Ltd., 2016)

C’è un strano senso di attesa in Skeleton Tree. E’ accaduto qualcosa, talmente rapido e imprevedibile da superare in velocità la nostra capacità di comprensione. Cerchiamo di metabolizzare le conseguenze, aspettando che queste si svelino alla nostra coscienza. In una tranquillità surreale galleggiano le parole di Nick Cave, sorta di monologo interiore immerso in un flusso cosmico di tastiere e sintetizzatori. Parole che non possono non riportare alla mente la tragica scomparsa del figlio quindicenne, precipitato da una scogliera nel 2015. Anche se le composizioni di Skeleton Tree hanno iniziato a prendere forma prima della tragedia - e mai fanno esplicito riferimento ad essa - è evidente quanto questa abbia influenzato il loro sviluppo. Il senso di vertigine e perdita dell'orientamento che si prova entrando nell'oscurità di Skeleton Tree è quello di un padre che si trova costretto ad affrontare la perdita più dolorosa. La voce del cantautore australiano - sempre più recitativa e lontana dalla melodia convenzionale - si avventura fragile nel vuoto, facendosi largo in una nebbia di rumori e suoni sintetici. Poche note di tastiera evocano grandi spazi disabitati, che non fanno che accentuare il senso di solitudine. Siamo in un limbo. C'è pace e calma, ma anche un immenso vuoto. Al suo sedicesimo disco con i Bad Seeds, Cave affronta ancora una volta storie nere, metafore della condizione umana. Ma con una sensibilità nuova. La sensibilità di una voce, nuda e imperfetta, che si trova sperduta, in mezzo all'oceano. “I call out, right across the sea...but the echo comes back empty.”
[R.T.]
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Nick Cave & The Bad Seeds – Skeleton Tree
(Bad Seed Ltd., 2016)

There is a strange sense of waiting in Skeleton Tree. Something happened. So rapid and unpredictable to outrun our ability to understand. We try to metabolize the consequences, waiting for these ones to unveil themselves to our consciousness. In a surreal tranquility, Nick Cave words float, as a sort of interior monologue immersed in a cosmic flow of keyboards and synthesizers. Words reminiscent of the tragic death of his fifteen-year old son, fallen from a cliff in 2015. Although Skeleton Tree songs began to take shape before the tragedy - and there is no explicit reference to this terrible event - it is evident how this one has affected their development. The dizziness and disorientation you feel entering the darkness of Skeleton Tree is that one of a father who is forced to face the most painful loss. Increasingly recitative and far from conventional melody, the Australian singer voice ventures into the void with frailty, making its own way through a fog of noises and synthetic sounds, while a few key notes evoke large uninhabited areas, enhancing the sense of solitude. We are in a limbo. There is peace and quiet, but also an immense void. With its sixteenth album with The Bad Seeds, Cave faces once again black stories, metaphors of the human condition. But with a new sensibility. The sensibility of a voice, naked and imperfect, which is lost in the ocean. “I call out, right across the sea...but the echo comes back empty.”
[R.T.]

mercoledì 18 gennaio 2017

Moaning Cities – D.Klein


Moaning Cities – D.Klein
(EXAG' Records, 2016)

In Belgio il Sole non splende con lo stesso calore e vivacità che in California. Il cielo è velato, l’aria più tetra e la temperatura più rigida. Per questo la psichedelia dei Moaning Cities, giovane band di Bruxelles, pur evidenziando alcune affinità con l’estate dell’amore californiana, possiede l’anima dell’autunno newyorkese dei Velvet Underground. Il loro è un rock elettrico carico di energia, come quello di una band psych garage (vengono in mente i Black Angels, oltre ai maestri 13th Floor Elevators), ma bagnato da foschi passaggi narcolettici, ai confini della musica cosmica tedesca. I fratelli Meunier intrecciano le loro voci (maschile e femminile) e i loro strumenti (il basso morbido e avvolgente di Juliette e la chitarra liquida di Valerian) mentre Timothee Sinagra lascia andare il freno e fa correre la sua 6 corde ai confini della dissonanza. Le melodie, dapprima vitali e vigorose (Expected, Vertigo Rising), si dilatano - allucinogene - come la mente di Jim Morrison in acido. Talvolta avvolgendosi in sensuali sinusoidi (Sex Sells), altre volte fondendo la scuola lisergica americana con la spiritualità orientale (il sitar di Yell-O-Bahn). Significativo che questi accenni di miscelazione culturale provengano proprio dal Belgio - cuore dell’Europa, nonché uno dei paesi del vecchio continente in cui il rapporto tra queste diverse culture risulta più complicato. Riuscire a fondere ancor più profondamente queste diverse componenti potrebbe essere il trampolino per il vero e proprio salto di qualità che la band belga meriterebbe, visti gli affascinanti risultati raggiunti con D.Klein.
[R.T.]
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Moaning Cities – D.Klein
(EXAG' Records, 2016)

In Belgium Sun does not shine with the same warmth and vivacity as in California. The sky is hazy, the atmoshpere is darker and the temperature is colder.  This is the reason why Moaning Cities (young band from Brussels) psychedelia owns the soul of the autumnal New York of The Velvet Underground, while showing some affinity with the Californian summer of love. Their rock is electric and full of energy, such as that one of a psych garage band (they remind The Black Angels, and aldo the masters The 13th Floor Elevators), yet bathed in hazy narcoleptic passages, on the borders of the German kosmische Musik. The Meunier brothers intertwine their voices (male and female) and their instruments (the soft and enveloping Juliette bass and the liquid Valerian guitar) while Timothee Sinagra lets his 6-string run towards the edge of dissonance. The melodies, vital and vigorous (Expected, Vertigo Rising), dilate themselves, hallucinogenic like Jim Morrison mind in acid. Sometimes wrapping themselves in sensual sinusoids (Sex Sells), sometimes merging the American lysergic school with Eastern spirituality (sitar sound on Yell-O-Bahn). Significantly, these hints of cultural mixing come from Belgium - the heart of Europe, as well as one of the countries of the old continent in which the relationship between these different cultures is more complicated. Merging more deeply all these different elements could be the springboard for the real qualitative leap that the Belgian band deserves, considering the fascinating results achieved with D.Klein.
[R.T.]

venerdì 13 gennaio 2017

Red Fang - Only Ghosts


Red Fang – Only Ghosts
(Relapse, 2016)

Ascoltare i Red Fang su disco, e non dal vivo, è come bere una birra piccola. Godi solo a metà. La band di Portland ha da sempre mostrato il meglio di sè sul palco, anziché rinchiusa in un’autoradio, in uno stereo da salotto o nelle cuffiette di un iPhone. Per essere assaporati appieno, il groove e la grezza energia dei loro pezzi, necessitano di puzzo di sudore, gomitate, e magari una birra (pinta, non piccola!) che ti si rovescia addosso. Per i palati fini che preferiscono ascoltare la musica senza rischiare la vita nel pogo, i Red Fang hanno scritto Only Ghosts. Con il quarto album, alleggerendo il carico di fanghiglia sludge e alcolismo, e focalizzandosi maggiormente sulla melodia e sulla cura degli arrangiamenti, la band riesce a suonare coinvolgente anche se ascoltata in autoradio (in salotto o in cuffia molto meno, mica hanno scritto un disco moscio!). Lo scheletro della loro musica è sempre costituito da riffoni distorti estremamente dinamici e da pesanti mazzate metal, ma c’è un leggero tocco psichedelico, quasi garage, che si insinua tra questi (accentuato dalla goccia di riverbero con la quale è colorata la voce pulita di Aaron Beam). Asciutti, diretti e immediati (merito anche della cura sonora operata da Ross Robinson – produzione e collaborazione in fase di arrangiamento - e Joe Barresi – missaggio), brani come Cut It Short o Shadows sono esaltanti anche se ascoltati senza l'atmosfera adrenalinica che si respira ai loro concerti. E dimostrano quanto i Red Fang attuali siano sempre più vicini allo stoner rock da classifica dei Queens of the Stone Age, piuttosto che a quello di Mastodon e Melvins. Tradimento dell’etica di orgogliosa volgarità e brutalità alcolica, o definitiva maturazione della capacità di sintesi tra melodie contagiose e riff divertentissimi, pieni di pesantezza, groove ed energia? Io sono per la seconda ipotesi.
[R.T.]
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Red Fang – Only Ghosts
(Relapse, 2016)

Listening to Red Fang music on records, and not at a live show, it is like drinking a small beer. You are only partly satisfied. The band from Portland has always shown its best on stage than locked inside a car radio, a living room stereo or iPhone headphones. To be fully savored, the groove and the raw energy of their songs require smell of sweat, elbows against yout teeth, and maybe a beer (pint, not half pint!) poured on your face. For gourmets who prefer to listen to music without risking their lives in the mosh, Red Fang wrote Only Ghosts. With their fourth album, lightening the burden of mud and alcoholism, and focusing a bit more on melody and arrangements, the band sounds involving even listened in a car radio (not so much in the living room or through the headphones, they have not  written a flabby album!). The skeleton of their music is always made by extremely dynamic distorted riffs and heavy metal blows, yet there is a slight psychedelic touch, almost garage tasted, which infiltrates among these ones (and this is emphasized by the reverb of Aaron Beam clean vocals). So dry, direct and immediate (thanks to the sound engineering by Ross Robinson - production and collaboration in arrangement - and Joe Barresi - mixing), tracks like Cut It Short or Shadows are exciting even if listened without the adrenaline atmosphere of their shows. And they prove how much the current Red Fang are getting closer to the mainstream stoner rock of Queens of the Stone Age than to that one of Mastodon and Melvins. Is this a betrayal of the ethic based on proud vulgarity and alcoholic brutality, or is this the ultimate maturity of the capacity of synthesis between catchy melodies and funny riffs full of heaviness, groove and energy? I bet on the latter hypothesis.
[R.T.]

martedì 10 gennaio 2017

Deville - Make It Belong to Us


Deville - Make It Belong to Us
(Fuzzorama Records, 2015)

Non si può non voler bene ai Deville, una band che ti fa tornare sedicenne. I primi tentativi di suonare la chitarra e di farsi allungare i capelli, la camicia di flanella indossata anche a letto, i dischi ascoltati a ripetizione e conosciuti a memoria… la band svedese ha il potere di risvegliare l’adolescente che c’è in me! Un adolescente che si sparava The Colour and the Shape a tutto volume, tra un disco grunge e l'altro. Diretto, immediato, divertente, melodicamente accattivante e con un gran tiro. Il disco dei Foo Fighters spezzava la depressione che continuamente imperversava nel mio stereo. Così come la band di Dave Grohl fu in grado di creare un bellissimo disco di pop rock partendo dal retroterra grunge e punk, i Deville fanno la stessa cosa da una base stoner ed heavy metal. I riff serrati e pesanti sono metallo puro, ma i suoni pieni e fuzzosi, così come il tiro travolgente, sono quelli tipici dello stoner degli ultimi anni (non a caso hanno diviso il palco con Torche, Red Fang e Truckfighters). L'album degli svedesi ha tutti i pregi di quello che divoravo nel 1997, o almeno tutti quelli dei suoi pezzi più tirati. Canzoni cariche a mille (nessuna traccia di ballata), compatte e determinate ma che mai rinunciano al groove di un bel riff rotondo. Ganci melodici a profusione, che rapiscono grazie ad una sensibilità mai banale o scontata (infatti c'è spesso un sottile velo di dissonanza nelle linee vocali). Dopo The Colour and the Shape non ho più inserito nello stereo un disco dei Foo Fighters. Ma non è mai svanita la mia adolescenza. Se ne sta assopita in un angolo, aspettando i dischi giusti. I Deville hanno scritto uno di questi dischi. 
[R.T.]
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Deville - Make It Belong to Us
(Fuzzorama Records, 2015)

It is impossible not to love Deville, a band that takes you back to your sixteen. The first attempts to play the guitar and get long hair, the flannel shirt worn also under the bed sheets, albums you listened a million times knowning them by heart ... the Swedish band has the power to awaken the teenager in me! A teenager who listened to The Colour and the Shape at full volume, among a lot of grunge albums. Direct, immediate, entertaining, melodically appealing and with a great groove. The Foo Fighters album used to break the depression constantly raging in my stereo. As well as Dave Grohl band was able to create a beautiful pop rock album starting from a grunge punk background, the Deville one does the same thing from a stoner heavy metal start point. Their heavy riffs are pure metal, but their fuzz sound, as well as the overwhelming groove, is typical of modern stoner rock (indeed they have been sharing the stage with Torche, Red Fang and Truckfighters). The Swedes album has got all the qualities of that one I devoured in 1997, or at least those of its more vigorous parts. Groovy, compact, determined songs (no ballads at all) that never give up the groove of an effective riff. Plenty of melodic hooks conquering the listener thanks to a never banal or obvious sensitivity (indeed there is often a thin layer of dissonance in the vocal lines). After The Colour and the Shape no Foo Fighters album entered my stereo anymore. Yet my adolescence is never gone. It is just asleep in a corner, waiting for the right albums. Deville have written one of those albums.
[R.T.]

giovedì 5 gennaio 2017

True Widow - Avvolgere


True Widow - Avvolgere
(Relapse Records, 2016)

Nel bel mezzo di quel coca-party che sono stati gli anni 80, alcuni sfigati sono rimasti (per loro volontà) fuori dalla festa yuppie. La loro attitudine stanca, disillusa, annoiata, si opponeva (passivamente) all'energia strabordante di quegli anni, e aveva per colonna sonora l'autocompiaciuta debolezza delle band indipendenti americane, Dinosaur Jr in testa. Sono passati trent'anni da quella festa, e i postumi degli eccessi senza freni di quell'epoca sono sotto gli occhi di tutti. Una band come i True Widow, musicalmente ispirata alla spossatezza del rock indipendente di quegli anni, possiede però una mentalità diversa da quella dei suoi fratelli maggiori. Infatti non ha neanche più la forza per deridere le conseguenze sociali dell’apparente stato di benessere. Il trio texano è immerso fino al collo nei postumi degradanti del colossale dopo-sbronza. In contrapposizione alle melodie agrodolci, di impronta shoegaze, i suoni grevi e cavernosi delle chitarre slabbrate sono fango che impantana e rallenta i movimenti. I brani si trascinano pesanti, narcolettici e nebbiosi, senza però mai perdere immediatezza melodica e un pizzico di romanticismo malinconico. Perdenti - e fieri di esserlo! - i True Widow si inseriscono in quel percorso tracciato qualche anno fa dagli Jesu più melodici, recentemente intrapreso anche dai Pinkish Black. Un percorso in cui ogni spiraglio di luce è in precario equilibrio tra muri di distorsioni, e non possiede l'energia per allontanarsene.
[R.T.]
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True Widow - Avvolgere
(Relapse Records, 2016)

In the midst of that coca-party represented by the 80s, some losers were (for their own will) out of the yuppie party. Their tired disillusioned bored attitude, was (passively) opposing the overflowing energy of those years and it had the complacent weakness of American indie bands (Dinosaur Jr in the lead) as its own soundtrack. Thirty years have passed since that party, and the hangovers of the wild excesses of that era are plain for everyone. Musically inspired by the exhaustion of the independent rock of those years, however True Widow has got a different mentality from that of its older brothers. Indeed it does not even have anymore the strength to mock the social consequences of the apparent state of well-being. The Texan trio is immersed up to its neck in the degrading aftermath of a colossal hangover. In contrast to the bittersweet melodies of shoegaze taste, the heavy cavernous sounds of ragged guitars are mud which bogs and slows down all movements. Songs drag on heavy, narcoleptic and foggy, yet they never lose melodic immediacy and a hint of melancholy romance. Losers - and proud of it! - True Widow fit into that path traced a few years ago by the most melodic Jesu, also recently undertaken by Pinkish Black. A path where every glimmer of light is in precarious balance among walls of distortion, and does not have the energy to depart from it.
[R.T.]