lunedì 31 luglio 2017

Entombed - Left Hand Path


Entombed - Left Hand Path
(Earache, 1990)

Rabbia adolescenziale, il desiderio di scioccare e una gran voglia di divertirsi. Con questi presupposti, nella seconda metà degli anni '80, a Stoccolma, nacque una piccola ma creativa scena. Band di teenagers come i Nihilist ed i Carnage iniziarono a suonare musica pesante con attitudine hardcore. La loro musica rimase underground, ma gettò le fondamenta di un suono innovativo. Gli Entombed (nati dalle ceneri dei Nihilist) pubblicarono il loro album d'esordio nel 1990, portando a maturazione le idee dell'intera scena. Left Hand Path è un macigno fangoso dominato da uno strano suono di chitarra saturo di frequenze medie, un album di death metal sporco e grasso, soffocante e oppressivo come una storia di Lovecraft, spaventoso e divertente come un b-movie horror. Melodie cupe (perfettamente rappresentate dallo splendido artwork), visioni splatter e violenza adolescenziale.
[R.T.]
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Entombed - Left Hand Path
(Earache, 1990)

Teenage rage, the wish to shock and a great will of having fun. With these assumptions, in the second half of the 80’s, in Stockholm, a small but creative scene was born. Teenage band like Nihilist and Carnage started to play heavy music with hardcore attitude. Their music remained underground, but it layed the foundations of an innovative sound. Entombed (arisen from Nihilist ashes) published their debut in 1990, maturing the ideas of the entire scene. Left Hand Path is a sludgy boulder dominated by a strange guitar sound full of medium frequencies, a dirty and fat death metal album, suffocating and oppressive as a Lovecraft story, frightening and funny as an horror b-movie. Grim melodies (perfectly represented by the wonderful artwork), splatter visions and teenage violence.
[R.T.]

sabato 29 luglio 2017

Ruby The Hatchet - Valley of the Snake


Ruby The Hatchet - Valley of the Snake
(Tee Pee Records, 2015)

Un pick up scassato, un gruppo di amici strafatti, rock n' roll, birra e fumo a volontà, e una casetta nascosta nel bosco dove trascorrere il fine settimana, ignari del Male che vi si annida. Esilarante omaggio dei Ruby The Hatchet a La Casa di Sam Raimi, Il video di Vast Acid è la perfetta rappresentazione della loro personale visione dell'occult rock al femminile che imperversa da qualche anno a questa parte negli stereo degli appassionati di musica heavy psych. Il gruppo americano si approccia alle atmosfere oscure del passato con la sensibilità di un nerd divoratore di b-movie e vinili, più attento a non far spegnere la canna davanti al suo horror preferito, piuttosto che a impersonare con convinzione il ruolo di stregone in contatto con il regno dei morti. Il loro Valley of the Snake è un album che entra nei sotterranei cari ai primi Black Sabbath e ai loro discepoli. Ma nello scendere le scale verso l'oscurità mostra un groove rotondo che sfiora l'energia del doom più prossimamente imparentato con lo stoner. I riff e i fraseggi di chitarra hanno quel retrogusto allucinogeno e sfasato caro agli Uncle Acid and the Deadbeats, e creano l'atmosfera misteriosa e vagamente inquietante tipica del genere. Semplice, scorrevole, melodicamente coinvolgente (ottima la prova vocale di Jillian Taylor), e con un ottimo tiro. Insomma, come guardarsi un bel film horror, tutti fumati, con gli amici. Attenzione al gioco al quale giochiamo però: potremmo inaspettatamente liberare le forze del Male e rimanerne travolti!
[R.T.]

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Ruby The Hatchet - Valley of the Snake
(Tee Pee Records, 2015)

A wrecked jeep, a bunch of ultra-doped friends, rock 'n' roll, plenty of beer and weed, and a cottage hidden in the woods to spend the weekend in, unaware of the Evil who nests there. Ruby The Hatchet hilarious tribute to Sam Raimi's Evil Dead, the videoclip of Vast Acid is the perfect representation of their own personal view of that "female" occult rock so cool for many heavy psych fans in these last years. The American band approaches the dark atmospheres of the past with the sensitivity of a vinyls-and-b-movies-devourer nerd, more careful not to die out his joint in front of his favorite horror, rather than to impersonate the role of the magician in touch with the kingdom of the dead. Their Valley of the Snake is an album that enters the underground basements dear to the early Black Sabbath and their disciples. But going down the stairs towards the darkness it shows a groove that touches the energy of that doom close to stoner. Guitar riffs and phrasings have that hallucinogenic aftertaste so dear to Uncle Acid and the Deadbeats, and they create the mysterious and vaguely disturbing atmosphere typical of the genre. Easy-listening, melodically engaging (excellent Jillian Taylor on the microphone), and with a great groove. In short, how to watch a beautiful horror movie, doped, together with friends. Beware of the game we play, anyway: we could unexpectedly release the forces of Evil and get crushed by them!
[R.T.]

giovedì 27 luglio 2017

The Freeks – Shattered


The Freeks – Shattered
(Heavy Psych Sounds, 2016) 

Punk si nasce. Non si diventa. E se nasci punk, anche se la vuoi nascondere, la tua cresta affiorerà sempre. Per quanto abbia sempre nascosto la sua cresta sotto uno strato di riff hard rock e polvere stoner, nei Fu Manchu e nei Nebula Ruben Romano ha sempre fatto emergere la sua anima punk hardcore, al punto da rendere unica e personale la musica delle sue band. Con i Freeks - in cui canta e suona la chitarra anziché la batteria - Romano libera il suo spirito proto-punk attraverso canzoni che possiedono la carica ruvida dei gruppi di Detroit di fine anni '60 / inizio anni '70, le divagazioni lisergiche con cui gli Hawkwind allietavano i festival underground inglesi, oltre alla frenesia da party sbronzo dei New York Dolls. Terzo disco della band, Shattered scorre fluido, libero, incontenibile, come una serata in compagnia di un infinito numero di birre. Diretto, carico, strabordante di energia, con qualche giramento di testa da eccessi (psichedelici). Divertimento che prima o poi si trasformerà in meditazioni ubriache sull’Universo infinito, per poi concludersi tra vomito e mal di testa. Ma questo è un problema che un vero punk non si pone. Intanto godiamoci queste scariche elettriche. No future.
[R.T.]

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The Freeks – Shattered
(Heavy Psych Sounds, 2016) 

You born punk. You do not become it. And if you were born punk, even if you want to hide it, your mohawk will always emerge. As he has always hidden his mohawk under a layer of hard rock riffs and stoner dust, in Fu Manchu and Nebula Ruben Romano has always revealed his punk hardcore soul up to the point of making unique and personal the music of his bands. With The Freeks - where he sings and plays guitar instead of drums - Romano unleashes his proto-punk spirit through songs that have the rough energy of Detroit bands in the late 60s / early 70s, the lysergic digressions with which Hawkwind used to entertain English underground festivals, as well as the drunk party frenzy of New York Dolls. Third album of the band, Shattered flows fluid, free, uncontrollable, like an evening together with an infinite number of beers. Dirty, groovy, overflowing energy, with some dizziness due to (psychedelic) excesses. Fun that will sooner or later turn into drunken meditations on the infinite universe, to finally end up with vomit and headache. But this is a problem that a real punk does not stand. Meanwhile, let's enjoy these electric discharges. No future.
[R.T.]

lunedì 24 luglio 2017

Slayer - Seasons in the Abyss


Slayer - Seasons in the Abyss
(Def American Recordings, 1990)

Il thrash metal raggiunge il suo apice di successo nel 1990 - anno che rappresenta inoltre la fine di un'era per questo tipo di musica. Mentre i Megadeth costruiscono un ponte fra il classic metal degli anni '80 e il metal tecnico degli anni '90 e i Pantera rivoluzionano e modernizzano il genere, gli Slayer compongono l'inno funebre di un movimento musicale. Seasons in the Abyss non è un album rivoluzionario, ma è un album maturo, perfetta rappresentazione di un genere musicale prossimo alla sua stessa morte. Esplora i due poli estremi della musica degli Slayer: il male e la violenza. Essendo impossibile riprodurre la furia di Reign in Blood, la grandezza di questo album non sta nella violenza (anche se War Ensemble è una perfetta macchina da guerra!), bensì nelle atmosfere cupe e nelle melodie dissonanti, più spaventose e malvagie di quelle di South of Heaven. I grandi riff mid tempo combinati con le atmosfere malate rappresentano uno degli apici del thrash metal e al tempo stesso il suo funerale.
[R.T.]

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Slayer - Seasons in the Abyss
(Def American Recordings, 1990)

Thrash metal reaches the apex of notoriety in 1990 - year that also represents the end of an era for this kind of music. While Megadeth build a bridge between 80s classical and 90s technical metal and Pantera revolutionize and modernize the genre, Slayer compose the funeral hymn of a musical movement. Seasons in the Abyss is not a revolutionary album, but a mature one, a perfect representation of a musical genre close to its own death. It explores the two extremes of Slayer music: evil and violence. Being impossible to reproduce Reign in Blood fury, the greatness of this album is not in its violence (although War Ensemble is a perfect war machine!), but in its gloomy atmospheres and dissonant melodies, more dreadful and evil than South of Heaven ones. Great mid tempo riffs combined with sick atmosphere represent one of thrash highest points, and its funeral at the same time.
[R.T.]

sabato 22 luglio 2017

Oathbreaker – Rheia


Oathbreaker – Rheia
(Deathwish, 2016)

Prima seduta di un ciclo di psicoanalisi. Chiudi gli occhi, rilassa i muscoli e inizia a liberare il respiro, troppo a lungo trattenuto. Onde sonore di chitarra fanno avanti e indietro sulla riva, mentre una voce fragile, vulnerabile e nevrotica lascia profondi segni sulla sabbia (10:56). Presto ogni barriera scompare, e la tempesta emotiva esplode, dritta in faccia. Sfuriate post hardcore violentissime, tanto serrate da sfiorare i lidi post black metal esplorati dai Deafheaven. La seconda seduta di terapia (Second Son of R.) termina con un attacco di isteria tanto intenso da far venire i brividi. Sputare fuori tutti sé stessi fino a consumare le corde vocali. Già a questo punto siamo rapiti dall’espressività di Caro Tanghe, la cui voce - a metà strada tra Chelsea Wolfe e Julie Christmas - è sottoposta a continue metamorfosi. Una schizofrenia spaventosamente umana, e per questo toccante. Le profondità più recondite vengono esposte e bruciano come carne viva che si apre un varco da una ferita aperta. Questa è Needles in Your Skin. Epica e commovente. Immortals, con le sue armonizzazioni vocali dissonanti, mostra le diverse personalità della band (in equilibrio precario tra scatti d’ira e attimi di contemplazione introspettiva) che cercano di mettersi in fase, riuscendoci alla perfezione. Tornando sulla solitaria spiaggia iniziale (Begeerte), la giovane band belga porta a termine un percorso terapeutico che attraversa attimi di furia cieca, malinconiche melodie post rock e nebbiose atmosfere shoegaze. Di un'intensità disarmante, Rheia si dimostra un viaggio interiore doloroso, ma indispensabile.
[R.T.]

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Oathbreaker – Rheia
(Deathwish, 2016)

First session of a cycle of psychoanalysis. Close your eyes, relax your muscles and begin to release your breath, too long held. Guitar sonic waves go back and forth on the shore, while a fragile, vulnerable, neurotic voice leaves deep marks on the sand (10:56). Soon every barrier disappears, and the emotional storm explodes, right into the face. Ultra-violent post hardcore outbursts, almost close to post black metal shores explored by Deafheaven. The second session of therapy (Second Son of R.) ends with a hysterical attack so intense that makes you shudder. Spit out all yourself up to consume your vocal cords. Already at this point we are enraptured by Caro Tanghe's expressivity, whose voice - halfway between Chelsea Wolfe and Julie Christmas - is subjected to continuous metamorphosis. A frighteningly human schizophrenia, extremely touching. The more obscure depths are exposed and burn as a living flesh opening a gap from an open wound. This is Needles in Your Skin. Epic and moving. With its dissonant vocal harmonies, Immortals shows the different personalities of the band (which is skating on thin ice between anger and introspective contemplation) trying to be in phase, perfectly succeeding in this effort. Going back to the lonely beach of the opening (Begeerte), the young Belgian band completes a therapeutic journey through moments of blind fury, melancholic post rock melodies and misty shoegaze atmospheres. With its disarming intensity, Rheia is a painful, yet indispensable, inner journey.
[R.T.]

giovedì 20 luglio 2017

Gong - Rejoice! I'm Dead!


Gong - Rejoice! I'm Dead!
(Madfish, 2016)

Me lo immagino su una teiera volante, Daevid Allen. Fluttuante in un Paradiso surreale, tra folletti e giganteschi occhi radianti, intento a jammare allegramente con i tanti musicisti presenti nell'Aldilà, o a dedicarsi all'amore libero con la sua (anche artistica) metà Gilli Smyth.
Immagino che ogni tanto, da lassù, lasci andare un segnale telepatico, consapevole del fatto che sul pianeta Terra è ancora presente un radar in grado di captare le onde cosmiche della sua creatività: i Gong. La comune di cui è stato fondatore e guru ha continuato a portare avanti le vibrazioni positive della sua musica, per sua esplicito volere, con un album in cui lo spirito del musicista australiano risuona come se fosse ancora sul palco, senza alcuna sensazione di nostalgia. Rejoice! I'm Dead!, come si capisce dal titolo, possiede l'ironia di cui i Gong si sono sempre nutriti, ed è al tempo stesso un omaggio alla Libertà. Gli straordinari musicisti che hanno accompagnato Allen in questi ultimi anni possiedono la ricchezza creativa per concepire un disco fantasioso e divertente. Energia ritmica quasi funky convive con passaggi di jazz surreale, così come melodie psichedeliche si dilatano in vastissimi paesaggi che necessitano di immersione profonda, in completa meditazione. Echi dei King Crimson si percepiscono più volte nel corso dell'album - dagli assoli sghembi agli arpeggi concentrici delle chitarre, fino agli strati sonori sovrapposti, capaci di creare veri e propri soundscapes. La personalità di questi musicisti, in particolare quella di Kavus Torabi (già membro dei Guapo), spicca all'interno delle composizioni e dona ulteriore freschezza ai sentieri musicali tracciati da Allen nel corso di una vita intera. Lassù, da quella teiera fluttuante, il buon Daevid se la ride soddisfatto. E' riuscito a creare un'entità artistica ancora viva, libera e creativa, e che sopravvive perfino alla sua morte.
[R.T.]
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Gong - Rejoice! I'm Dead!
(Madfish, 2016)

I imagine Daevid Allen on a flying teapot. Fluctuating in a surreal paradise, among pixies and gigantic radiant eyes, cheerfully jamming with the many musicians in the Beyond, or devoting himself to free love with his (also artistic) half Gilli Smyth. 
I imagine that every now and then, up above, he sends a telepathic signal, aware of the fact that there is still a radar on planet Earth that can capture the cosmic waves of his creativity: Gong. The community of which he was founder and guru continues to carry on the positive vibrations of his music, for his explicit will, with an album in which the spirit of the Australian musician resonates as if he was still on stage without any nostalgic feeling. Rejoice! I'm Dead!, as it is clear from the title, possesses the irony that Gong have always nourished, and it is at the same time a tribute to Freedom. The extraordinary musicians who have accompanied Allen in the last few years have got the creative wealth to conceive an imaginative and funny album. Almost funky rhythmic energy coexists with surreal jazz passages, as psychedelic melodies expand  themselves into vast landscapes that need deep immersion, in complete meditation. Echoes of King Crimson are perceived repeatedly in the album - from crooked solos to concentric guitar arpeggios, to the overlapping sound layers, capable of creating great soundscapes. The personality of these musicians, especially that of Kavus Torabi (also member of Guapo), stands out within the compositions and gives further freshness to the musical paths traced by Allen throughout a lifetime. Up above, from that fluctuating teapot, the good Daevid laughs satisfied. He has been able to create an artistic entity that is still alive, free and creative, and that survives even to his death.
[R.T.]

lunedì 17 luglio 2017

Alice in Chains - Facelift


Alice in Chains - Facelift
(Columbia, CBS, 1990)

E' ancora un mistero per molti come abbiano fatto dei musicisti innamorati dell'hair metal a generare la musica psicotica degli Alice In Chains. Alla metà degli anni '80 Seattle era il centro di un grande flusso di creatività, e l'hard rock veniva spesso rivisitato da bands quali Green River, Mother Love Bone e Soundgarden. Seguendo i sentieri tracciati da queste bands, gli Alice in Chains contribuirono a ridefinire i confini dell'hard rock attraverso la loro personale sensibilità. La commistione delle visioni di Cantrell e Staley creò una poetica personale, influenzata dall'energia dell'hard rock, dalle intime melodie alla Queensrÿche, dai riff tossici alla Black Sabbath e dalle atmosfere da suicidio alla Joy Division. Facelift è ancora acerbo, ma nella sua prima metà dimostra tutto il grande potenziale di una band capace di riscrivere le convenzioni dell'hard rock alla luce della sensibilità della nuova decade.
[R.T.]
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Alice in Chains - Facelift
(Columbia, CBS, 1990)

How musicians in love with hair metal could generate psychotic Alice in Chains music it is still as a mystery to a lot of people. In the middle of the 80s Seattle was the center of a great flow of creativity, and hard rock was frequently revisited by bands such Green River, Mother Love Bone and Soundgarden. Following the paths traced by these bands, Alice in Chains contributed to redefine hard rock boundaries with personal sensibility. The blending of Cantrell and Staley visions created a personal poetic, influenced by hard rock energy, intimate melodies in Queensrÿche style, doped Black Sabbath riffs and suicidal Joy Division atmospheres. Facelift is still unripe, but in its first half demonstrates the great potential of a band capable of rewriting hard rock conventions, with the sensibility of the new decade.
[R.T.]

giovedì 13 luglio 2017

Blood Ceremony + Admiral Sir Cloudesley Shovell + Ancient Cult - 10.06.2017 - Freakout Club (Bologna)


Blood Ceremony + Admiral Sir Cloudesley Shovell + Ancient Cult - 10.06.2017 - Freakout Club (Bologna)

Il viaggio in autostrada in direzione dell'ennesimo concerto è uno di quei momenti esaltanti in cui ci perdiamo in seghe mentali chilometriche sull’ “essenza” della musica. Il delirio odierno verte sulla bellezza dell’hard rock diretto, immediato e pieno di tiro (preferibilmente ad opera di un power trio), basato esclusivamente su un suono (uno!) di distorsione. Niente pedaliere grandi come astronavi! I nostri desideri verranno realizzati dagli Admiral Sir Cloudesley Shovell, che ci regalano un concerto inaspettatamente memorabile, considerando che eravamo al Freakout principalmente per i Blood Ceremony (che volevamo rivedere dal vivo dopo il loro concerto di spalla agli Electric Wizard nel 2009!). Ma andiamo con ordine.

Mentre a 20 minuti da Bologna, all’Autodromo di Imola, si sta radunando una folla oceanica per il ritorno dei Guns n’ Roses, noi ci ritroviamo sotto ad un cavalcavia nel centro cittadino, nel minuscolo spazio del Freakout, insieme ad un circolo ristretto di appassionati dei suoni occulti. A suo modo questo raduno “fuori dal mondo” rende la serata ancor più simile ad un rito segreto.

Ad avviare la messa nera sono i bolognesi Ancient Cult. Il loro hard rock esoterico è figlio degli anni '70, a metà strada tra le esalazioni solforose dei Black Sabbath, i trip spaziali dei Blue Öyster Cult e le cavalcate della prima New Wave of British Heavy Metal. Inizialmente un po’ legati (anche perché si tratta del primo concerto con il nuovo batterista) con il passare dei minuti acquistano calore e sicurezza dimostrandosi una realtà molto interessante, tecnicamente preparati e melodicamente mai banali (davvero molto belli alcuni fraseggi di chitarra). Il cantante con voce pulita e acuta è a mio parere l’anello debole, ma nel complesso il risultato è davvero valido.

Appena gli Admiral Sir Cloudesley Shovell ci sbattono in faccia il primo riff, ci ritroviamo dentro Easy Rider, in sella a una moto a tutta velocità. Hard rock sporco e cazzuto, che puzza di benzina e di birra, rauco come i Motorhead, elastico come i Led Zeppelin e punk ante litteram come gli Who. Pantaloni a zampa, basette gigantesche, look da rocker di un’altra epoca e una ragazzina alla batteria che pare un polpo indemoniato, da tanto si dimena. Rimango a bocca aperta da tanta potenza e tiro. Ogni riff è talmente classico che ti sembra di conoscere queste canzoni da anni, eppure mi esalta come se fosse la prima volta che sento un concerto dal vivo. Alla fine sono sudato fradicio ed esaltato come un fan dei Guns n’ Roses di 16 anni di fronte ai suoi idoli (ad un concerto dei primi anni 90). Grandiosi!

Dopo aver respirato direttamente dal tubo di scappamento di una Harley, e con l'adrenalina ancora a mille, non è semplice calarsi nelle atmosfere misteriose e vagamente esoteriche dei Blood Ceremony. Eppure la band canadese dimostra di esser cresciuta talmente tanto in questi anni, da non rimanere schiacciata dall'energia della band precedente (che, lo ribadisco, era veramente tanta!). Dopo Easy Rider è il turno di Tutti i colori del buio. Alia O'Brien veste il ruolo di sacerdotessa, e con una voce forte e sicura (alternata con disinvoltura a tastiera e flauto) ci invita in quel sabba polveroso, un po' psichedelico e un po' kitsch, caro all'immaginario horror del passato. Il gruppo suona bene, molto più coeso e disinvolto del 2009, e anche se ha perso un po' di quel fascino da b-movie, dimostra una maturità melodica che lo eleva tra i nomi più interessanti di un genere che ultimamente è molto in voga e che loro stessi sono stati tra i primi a rispolverare.
[R.T.]


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Blood Ceremony + Admiral Sir Cloudesley Shovell + Ancient Cult - 06.10.2017 - Freakout Club (Bologna)

Highway trips in the direction of the umpteenth concert are one of those exciting moments in which we lose ourselves in kilometric lucubrations on the "essence" of music. Today we focus on the beauty of direct, immediate, super-groovy hard rock (preferably played by a power trio), based exclusively on a (one and only!) distortion sound. No pedalboards huge like spaceships! Our wishes will be fulfilled by Admiral Sir Cloudesley Shovell, playing an unexpectedly memorable concert, considering that we were at Freakout primarily for Blood Ceremony (which we wanted to see live after their concert in 2009, as support band for Electric Wizard!). But first things first.

While 20 minutes from Bologna, at Imola Autodrome, an immense crowd is gathering for Guns n' Roses reunion, we find ourselves under a flyover in the city center, in the tiny venue of the Freakout, along with a restricted circle fanatics of occult sounds. In its own way this "out of the world" gathering makes the evening even more like a secret rite.

Ancient Cult (from Bologna) to start the black mass are. Their esoteric hard rock is son of the 70s, midway between Black Sabbath sulfuric exhalations, Blue Öyster Cult space trips and the galloping style of the first New Wave of British Heavy Metal. A bit stiff in the first part (also because it is the first concert with the new drummer) with the passing of minutes they acquire warmth and security proving to be a very interesting combo, technically skillful and melodically never trivial (really some beautiful guitar phrasings). With his clean sharp voice,the singer is in my opinion the weak element of the band, but overall the outcome is really worthwhile.

As soon as the Admiral Sir Cloudesley Shovell bang the first riff in our face, we find ourselves in Easy Rider riding a motorcycle at full speed. Badass dirty hard rock that smells of gasoline and beer, gruff like Motorhead, elastic like Led Zeppelin, punk ante litteram like The Who. Bell-bottoms, gigantic boots, rocker look from another era, and a teenage on the drums that looks like a possessed octopus. I am really amazed by their incredible groove. Every riff is so classic that it seems you know their songs from ages, yet it exalts me as if it was the first time I hear a live concert. In the end I am soaking sweaty and exalted as a 16-year-old Guns n 'Roses fan in front of his idols (at a 90s concert). Magnificent!

After breathing directly from the exhaust pipe of a Harley, and still full with adrenaline, it is not easy to fall into the mysterious and vaguely esoteric atmospheres of Blood Ceremony. Yet the Canadian band shows that it has grown so much in recent years, that it is not crushed by the energy of the previous band (which, I repeat, was really incredible!). After Easy Rider is the turn of All the Colors of the Dark. Alia O'Brien plays the role of a priestess, and with a loud and sure voice (alternating with keyboards and flute) invites us into that dusty, somewhat psychedelic, and a bit kitsch, sabbath so dear to the horror imaginary of the past. The band plays really well, much more cohesive and confident than in 2009, and although it has lost some of its b-movie charm, it shows a melodic maturity that elevates it among the most interesting names of a genre very much in vogue lately and that they themselves were among the first to revive.
[R.T.] 




domenica 9 luglio 2017

Zeal & Ardor – Devil is Fine


Zeal & Ardor – Devil is Fine
(Reflections Records, 2016)

C’è una strada lunghissima e sconnessa che attraversa i campi di cotone americani del 1800 e giunge fino a noi nel nuovo millennio. Una strada che gran parte della musica popolare odierna ha, in qualche modo, percorso. Manuel Gagneux unisce la partenza (gli intrecci vocali degli spiritual e del gospel) e alcuni dei tanti arrivi possibili (il black metal delle foreste norvegesi, i suoni sintetici dell’elettronica metropolitana, il neofolk notturno) seguendo traiettorie personali, inaspettatamente coinvolgenti nonostante l’apparente incoerenza del percorso. La matrice religiosa degli spiritual si trasforma in invocazioni del demonio, surreale provocazione alla loro stessa natura (dato che la loro ispirazione iniziale, la religione cristiana, era imposta dagli schiavisti), che però ne evidenzia la profonda essenza di musica legata al desiderio di riscatto attraverso la socializzazione. Un’essenza che si dimostra ancora attuale, soprattutto in una musica realmente alternativa come quella di Zeal & Ardor. Una musica in cui convivono e collaborano etnie diverse, in un modo concettualmente affine a quanto fatto dagli Algiers (che fondono “comunità diverse” - come post punk e gospel - per dare vita ad una nuova, moderna, “società”). Zeal & Ardor è un esperimento di integrazione perfettamente riuscito, come dimostra la fluidità della meravigliosa Come on Down (la voce nera di Gagneux diventa una cosa sola con le gelide sfuriate di chitarra nordeuropee e con le malinconiche note di piano britanniche). Non ci resta che estrapolare la lezione e applicare questo esperimento alla società in cui viviamo.
[R.T.]
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Zeal & Ardor – Devil is Fine
(Reflections Records, 2016)

There is a really long and bumpy road crossing 19th Century American cotton fields and reaching us in the new millennium. A road traveled by a great part of today popular music. Manuel Gagneux unites the start point (the vocals of spirituals and gospels) and some of the many possible arrivals (Norwegian black metal, synthetic sounds of metropolitan electronics, nocturnal neofolk), following personal trajectories - unexpectedly engaging in spite of the apparent inconsistency of the path. The religious matrix of spirituals becomes invocation of the devil, surreal provocation to their very own nature (since their initial inspiration, the Christian religion, was imposed by slaveholders), but it highlights its deep essence of music with a desire of redemption through socialization. An essence that is still current and alive, especially in a really alternative music like that of Zeal & Ardor. A music in which different ethnicities coexist and collaborate, in a way conceptually similar to Algiers one (band blending "different communities" - like post punk and gospel - to create a new, modern, "society"). Zeal & Ardor is a perfectly successful experiment of integration, as shown by the fluidity of the wonderful Come On Down (Gagneux black voice becomes one only thing with the Northern European freezing outbursts of guitar and with the British melancholy of piano notes). We just have to extrapolate the lesson and apply this experiment to the society in which we live.
[R.T.]

martedì 4 luglio 2017

Aluk Todolo - Voix


Aluk Todolo - Voix
(Norma Evangelium Diaboli, The Anja Offensive, 2016)


“Se le porte della percezione venissero purificate tutto apparirebbe all’uomo come è, Infinito” (William Blake)

Gli Aluk Todolo hanno trovato la chiave per aprire le porte della percezione. Per una quarantina minuti (tempo terrestre di riferimento) ci lasciano dare un'occhiata al di là dello specchio. Quel che riusciamo a percepire è un universo del quale non comprendiamo i confini, e la cui visione spaventa e lascia frastornati. Voix è un labirinto di ritmi ossessivi e nevrotici, sui quali rumorosissime chitarre deragliano tra note piegate semitono dopo semitono in bending infiniti, feedback lancinanti ed echi che si rincorrono come su una scala a chiocciola. Reale e irreale si fondono. Lunghe note di chitarra si amplificano come in un gioco di specchi grazie ad una magistrale capacità di manipolazione del suono mediante effetti larsen. Liberi da ogni costrizione razionale, in puro spirito kraut rock, siamo immersi in atmosfere oscure e inquietanti che ricordano gli esperimenti più acidi del post black metal degli Oranssi Pazuzu. La vertiginosa musica proposta dal trio francese è una continua metamorfosi dal potere magnetico. Dopo aver fatto capolino al di là delle Colonne d'Ercole della percezione, sarà impossibile fare ritorno. Bellissimo - e spaventoso al tempo stesso! - perdersi in questo mare.
[R.T.]
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Aluk Todolo - Voix
(Norma Evangelium Diaboli, The Anja Offensive, 2016)

“If the doors of perception were cleansed every thing would appear to man as it is, Infinite." (William Blake)

Aluk Todolo found the key to open the doors of perception. For about forty minutes (earth time as reference) they let us have a look beyond the mirror. What we perceive is a universe of which we do not understand the boundaries, and whose vision frightens us and leaves us dazed. Voix is a labyrinth of obsessive and neurotic rhythms, on which loud  noisy guitars derail among notes bent semitone after semitone in infinite bendings, lancinating feedbacks and echoes running one after the other like on a spiral staircase. Real and unreal blend together. Long guitar notes amplify themselves as in a game of mirrors thanks to a masterful ability to manipulate the sound through larsen effects. Free from all rational constraints, in pure kraut rock spirit, we find ourselves immersed in dark disturbing atmospheres recalling the acid experiments of Oranssi Pazuzu post black metal. The vertiginous music of the French trio is a continuous metamorphosis with magnetic power. Once you peeped beyond the Pillars of Hercules of perception, it will be impossible to come back. Beautiful - and scary at the same time! - to get lost in this sea.
[R.T.]

domenica 2 luglio 2017

Giöbia + Capt Crunch and the Bunch – 27.05.2017 – Surfer Joe (Livorno)

 

Giöbia + Capt Crunch and the Bunch – 27.05.2017 – Surfer Joe (Livorno)

Quando arrivano i 30 gradi perfino il metallaro esce dal sarcofago per andarsi a vedere un concerto a due passi dal mare. Ovviamente raggiunge il palco quando il Sole è calato, sia mai ci sia il rischio di abbronzarsi.

Nella patria livornese del surf rock suona perfetta la musica dei Capt Crunch and the Bunch, che pare giunta in Piazza Mascagni da un’altra epoca, quando il beat era la musica del momento e sbarcava in Italia da un’Inghilterra in pieno fermento creativo. La band della Pisorno (come ci tiene a definirla il Capitano) suona ancora più coesa e precisa di quanto aveva dimostrato al Borderline, e con quel suo impatto sporco - tipicamente garage - rende più ruvide le melodie. Una musica che gustata sul mare assume un gusto ancor più frizzante e divertente, e che in alcuni momenti (quelli velati di psichedelia) ha un retrogusto acido che la rende, alle mie orecchie, irresistibile.

Gli anni ‘60 evocati dai Giöbia invece sono oscuri, nebbiosi e stordenti. La macchina del fumo satura il palco con dense nubi, così come la chitarra (inizialmente settata ad un volume gigantesco) riempie una piazza di per sé impossibile da riempire, avendo il mare come orizzonte. Quando la nebbia generata dalla Diavoletto di Stefano Bazu Basurto (talmente effettata da non sembrare una chitarra) si affievolisce, è il basso che evidenzia quanto l’attenzione riscossa dalla band milanese sia meritata. La semplicità e l’efficacia di un riff di basso ipnotico, rotondo e circolare, potenzialmente infinito, nel quale perdersi. Questo è il nucleo della musica dei Giöbia. Se su disco tutto questo è in evidenza, donando morbidezza avvolgente alle composizioni, qui è nascosto sotto tempeste soniche di delay ed echi, che rendono la musica estremamente disorientante. Ma il nucleo è sempre li. Sotto strati di fumo e nebbia. E perdercisi dentro è sempre un piacere.
[R.T.]

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Giöbia + Capt Crunch and the Bunch – 05.27.2017 – Surfer Joe (Livorno)

When the thermometer marks 30 degrees even metalheads come out of the coffin to go to a concert a few steps from the sea. Obviously reaching the stage when the sun has fallen, to avoid the risk of a tan.

Livorno and its homeland of surf rock are simply perfect for the music of Capt Crunch and the Bunch, which seems to arrive in Piazza Mascagni from another era, when the beat was the music of the moment, just landed in Italy from an England in full creative ferment. The Pisorno band (as the Captain calls it) sounds even more cohesive and precise than at Borderline a month and a half ago, and with its dirty - typically garage – impact it makes melodies even rougher. On the seaside this music gains an even more sparkling and funny taste, and in some moments (those veiled with psychedelia) it has an acid aftertaste that makes it irresistible to my ears.

The 60s evoked by Giöbia are dark, foggy and stunning. The smoke machine saturates the stage with dense clouds, as the guitar (initially set to a giant volume) fills a square in itself impossible to fill, having the sea as its horizon. When the fog generated by the Stefano Bazu Basurto Gibson SG (ultra-effected up to the point of not sounding as a guitar) is fading, it is the bass that highlights how much the attention obtained by the band from Milano has been fully deserved. The simplicity and effectiveness of a hypnotic, round, circular, potentially endless riff, in which to get lost. This is the core of Giöbia music. If all this is well in evidence on record, giving softness to the songs, here it is hidden under sonic storms of delay and echoes, making the music extremely disorientating. But the core is always there. Underneath layers of smoke and fog. And getting lost inside it is always a great pleasure.
[R.T.]