sabato 30 settembre 2017

Pontiak - Dialectic of Ignorance


Pontiak - Dialectic of Ignorance
(Thrill Jockey, 2017)

Tre fratelli che vivono e lavorano in una fattoria, nel cuore della Virginia, sulle Blue Ridge Mountains.  Lontani dal caos delle grandi città, concentrati sulla produzione di birre artigianali e su lunghe jam session psichedeliche nello studio casalingo. Praticamente una puntata de La casa nella prateria, con i dischi di Neil Young al posto delle preghiere davanti ad una tavola imbandita. La saga familiare dei fratelli Carney raggiunge, con Dialectic of Ignorance, l'ottava puntata in full length. Come la famiglia Ingalls della serie televisiva (e, prima ancora, del romanzo), anche quella Carney deve affrontare il lato oscuro della vita rurale per mantenere l'idilliaca e bucolica situazione familiare. In questo episodio i tre barbuti americani intraprendono infatti un viaggio attraverso paesaggi nebbiosi e sperduti, abitati soltanto dai fantasmi dei pellerossa. La musica scorre placida, ad un ritmo rallentato che i nostri sensi di cittadini non sono abituati a percepire (se non sotto l'effetto di qualche sostanza). Riff ossessivi e carichi di fuzz si ripetono circolari mentre il ritmo scorre morbido e avvolgente, dilatando le melodie. Nella foschia lisergica si aprono squarci melodici di grande pace e luminosità (gli intrecci di voci sussurrate) ai limiti dello shoegaze. Ma la sensazione di stordimento e vaga inquietudine per ciò che non riusciamo a vedere, al di là dell'orizzonte, dimostra quanto questo sia un disco tutt'altro che di genere. Dallo slow stoner di Herb Is My Next Door Neighbor all'oscurità post punk di We've Fucked This Up, attraversiamo continuamente nuovi paesaggi, nelle sterminate terre selvagge americane, utilizzando sempre sentieri poco battuti. Auguriamoci che questa saga, come quella degli Ingalls, continui per altri 200 episodi.
[R.T.]

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Pontiak - Dialectic of Ignorance
(Thrill Jockey, 2017)

Three brothers living and working in a farm in the heart of Virginia on the Blue Ridge Mountains. Far from the chaos of the big cities, focused on the production of handcrafted beers and on long psychedelic jam sessions in the homemade studio. Almost one episode of Little House on the Prairie, with Neil Young albums instead of prayers in front of a table laden with food. With Dialectic of Ignorance, Carney brothers family saga reaches the eighth full-length episode. Like Ingalls family of the tv series (and of the novel, before), also Carney family must face the dark side of rural life to keep their idyllic and bucolic way of life. In this episode, the three bearded Americans take a journey through misty and isolated landscapes, inhabited only by the ghosts of the Native Americans. The music runs smoothly at a slow pace that our senses of citizens are not used to perceive (unless under the influence of certain substances). Obsessive riffs, rich in fuzz, repeat themselves circularly while the rhythm flows soft and enveloping, expanding melodies. In the psychedelic mist, melodic breaks of great peace and brightness (the interweavings of whispered voices) of shoegaze taste. But the feeling of stunning and weird anxiety about what we can not see, beyond the horizon, shows how much this is an album far from the stereotypes of musical genres. From the slow stoner of Herb Is My Next Door Neighbor to the post punk darkness of We've Fucked This Up, we're continually crossing new landscapes in the endless American wilderness, always using scarcely traced paths. Let's hope this saga, like that of the Ingalls, will continue for another 200 episodes.
[R.T.]

mercoledì 27 settembre 2017

Pallbearer - Heartless


Pallbearer - Heartless
(Profound Lore Records, Nuclear Blast, 2017)

Il rito dell'attesa. Come quando un temporale si sta avvicinando. Nuvole nere che si gonfiano e in un attimo percorrono lo spazio che separa l'orizzonte dalle nostre teste. Odore di umidità nell'aria, vento che soffia improvviso. Elettricità. Questo è Heartless. Non un'impetuosa tempesta come il precedente Foundations of Burden, bensì una malinconica e vagamente inquietante quiete, con il fantasma della bufera sempre più vicino. I riff mastodontici dell’album precedente, che lo avevano reso uno dei migliori dischi metal degli ultimi anni, sono qui frammentati, dilatati e rielaborati lungo sentieri melodici più prossimi al metal progressivo che al doom del passato. I fraseggi e gli intrecci delle due chitarre (da sempre marchio di fabbrica della band dell’Arkansas) sono stavolta la vera e propria architettura portante sulla quale sono costruite le sette - imponenti - canzoni, e sulla quale si arrampica, da protagonista, la voce di Brett Campbell, verso tonalità sempre più alte e melodie sempre più epiche e grandiose. L’attesa spasmodica che ha anticipato la terza pubblicazione della band troverà sfogo, per i vecchi fans, in un disco basato proprio sul senso di attesa, e che preferisce scorrere tra atmosfere avvolgenti (l’intro onirico di Dancing in Madness) anziché deflagrare in mazzate di grande impatto e potenza? Per un ambiente underground che in tempi recenti si è raramente esaltato tanto quanto all’ascolto dei primi due dischi della band, non sarà facile sentirsi ricompensato da questa trasformazione, che ha portato al completo abbandono del retrogusto post metal in favore di una sensibilità melodica affine a quella dei Queensrÿche di fine anni '80. Attesa e assenza di frenesia: questo è ciò di cui necessita un disco monumentale come Heartless per essere assorbito. La maturità delle melodie di I Saw the End, Thorns ed Heartless sono la migliore dimostrazione della titanica personalità dei Pallbearer, una band estranea ai generi predeterminati, che si conferma come una delle più capaci nel coniugare classico e moderno.
[R.T.]

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Pallbearer - Heartless
(Profound Lore Records, Nuclear Blast, 2017)

The ritual of waiting. Like when a thunderstorm is approaching. Black clouds swelling, travelling in a moment the space between the horizon and our heads. Smell of moisture in the air, wind suddenly blowing. Electricity. This is Heartless. Not a violent storm like the previous Foundations of Burden, yet a gloomy and vaguely disturbing quiet, with the ghost of the squall costantly nearer. The mastodontic riffs of the previous album, which had made it one of the best metal records in recent years, are fragmented here, dilated and reworked along melodic tracks closer to progressive metal than to the doom of the past. The phrasings and interweavings of the two guitars (always a trademark of the band from Arkansas) are the real load-bearing architecture on which the seven - imposing - songs are built and on which Brett Campbell voice climbs towards ever higher tones and increasingly epic and impressive melodies. The fevering waiting that has anticipated the third release of the band will find vent for old fans in this album based on the sense of wait and preferring to flow among enveloping atmospheres (the dreamlike introduction of Dancing in Madness) rather than deflagrate in blows of great impact and power? For an underground environment that recently has rarely been exalted as much as listening to the first two records of the band, it will not be easy to feel rewarded by this transformation, which has led to the complete abandonment of post metal aftertaste in favour of a melodic sensitivity alike that one of Queensrÿche in the late 80s. Wait and absence of frenzy: this is what a monumental album like Heartless needs to be absorbed. The maturity of the melodies of I Saw the End, Thorns and Heartless are the best demonstration of the titanic personality of Pallbearer, a band out of the predetermined genres, which is confirmed as one of the most capable in combining classic and modern.
[R.T.]

lunedì 25 settembre 2017

Celeste - 23.09.2017 - Alchemica (Bologna)

 

Celeste - 23.09.2017 - Alchemica (Bologna)

Buio in sala. Buio sul palco. Tanto fumo a formare una fitta nebbia. Uno, due, tre, quattro frontali dalla luce rossa si accendono in sequenza. E poi è l'apocalisse. C'è molto poco di celestiale nei francesi Celeste. Più che sospesi nell'Empireo, siamo sprofondati sottoterra. Sembra di essere dentro ad un tunnel nel profondo di una miniera. Poca aria, ed un forte senso di oppressione. Quasi di smarrimento. Unica bussola a nostra disposizione i fiochi fasci di luce rossa dei quattro Caronte che ci guidano in quella che ha tutta l'aria di essere un'angusta cavità infernale. Le bordate del quartetto sono implacabili e micidiali. La batteria è al tempo stesso fondamenta e colonne delle composizioni del combo francese. Le due chitarre ed il basso costruiscono mura e ponti di riffs in cui vaghiamo sperduti, schiacciati, ma al tempo stesso ammaliati. Solo 50 minuti, che volano via in un attimo. Finita la musica, accese nuovamente le luci, è come tornare a respirare dopo una lunga apnea. Ci si senti più liberi, leggeri. Uscendo dall'Alchemica, l'oscurità della notte all'improvviso si mostra più celeste.
[E.R.]

   

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Celeste - 09.23.2017 - Alchemica (Bologna)

Dark in the hall. Dark on stage. So much smoke to form a dense fog. One, two, three, four headlamps with red light turn on in sequence. And then it's the apocalypse. There is very little celestial in the French Celeste. More than suspended in the empyrean sky, we are sunk into the underground. It seems to be inside a tunnel in the depths of a mine. Little air, and a strong sense of oppression. Almost of dismay. The one and only compass available are the the dim beams of red light of the four Charon driving us into what seems a narrow infernal cavity. The attacks of the quartet are implacable and deadly. Drums is at the same time the foundations and the columns of the compositions of the French combo. The two guitars and the bass build walls and bridges of riffs in which we wander lost, crushed, but at the same time bewitched. Only 50 minutes, flying away in a moment. The music over, the lights turned on again, it is like breathing again after a long apnoea. It's like feeling more free, lighter. Exiting from Alchemica, the darkness of the night suddenly appears more celestial.
[E.R.]
   


sabato 23 settembre 2017

King Gizzard and the Wizard Lizard – Flying Microtonal Banana


King Gizzard and the Wizard Lizard – Flying Microtonal Banana
(Heavenly Recordings, Flightless Records, ATO Records, 2017)

C’è una soluzione semplice per disintegrare il luogo comune “ormai la musica rock è sempre la stessa, nessuno inventa più niente, d’altronde le note sono sette”. I King Gizzard and the Wizard Lizard l’hanno trovata. Non potevano che essere degli  inventori di suoni realmente alternativi come loro a portare a compimento questo esperimento. Basta sbriciolare ogni nota in minuscoli pezzi, ogni ottava in frammenti ben più piccoli dei 12 semitoni che fungono da base alla musica occidentale. Magari in frammenti diversi l’uno dall’altro. Per farlo i sette folli australiani si sono fatti costruire appositi strumenti con intervalli microtonali, e li hanno poi usati per comporre canzoni ossessive che suonano costantemente "sbagliate", al nostro orecchio di ascoltatori rock, per il loro continuo e inusuale utilizzo delle dissonanze. Canzoni dadaiste che possiedono il gioioso desiderio di giocare con le convenzioni, tipico del prog di Canterbury o del kraut rock. Certo, il brevetto di questa invenzione non può essere conferito a questi strambi musicisti - basti pensare a gran parte delle musiche orientali (l’eco delle quali risuona più volte in questo disco, non solo per l’utilizzo della zurna turca) - ma lo sviluppo “tipicamente” rock (psichedelico) di tali progressioni armoniche è indubbiamente originale. Non siamo però di fronte ad un mero esercizio di stile. Le filastrocche ubriache, che si aggrovigliano armonicamente in dissonanze a cascata, entrano in testa e appassionano fin dall’inizio, dimostrando quanto la messa a fuoco sia prima di tutto sulle canzoni. Come per ogni buon disco rock che si rispetti, insomma. E ora ci attendono altri quattro esperimenti progettati dalla band per il 2017. Stiamo pronti, potrebbe accadere di tutto.
[R.T.]

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King Gizzard and the Wizard Lizard – Flying Microtonal Banana
(Heavenly Recordings, Flightless Records, ATO Records, 2017)

There is a simple solution to disintegrate the cliché "now rock music is always the same, no one invents anything, after all notes are just seven".  King Gizzard and the Wizard Lizard found it. Only the inventors of  really alternative sounds like them could accomplish this experiment. Just crumble every note into tiny pieces, each octave into fragments much smaller of the 12 semitones that serve as the basis of western music. Possibly in fragments which are different from each other. To do this, the seven Australian fools have made special microtonal instruments, and then they used them to compose obsessive songs that sounds constantly "wrong" to our rock-listeners-ears, for their continuous and unusual use of dissonances. Dadaist songs that possess the joyful desire to play with conventions, typical of Canterbury prog or kraut rock. Certainly, the patent of this invention cannot be given to these queer musicians - just think of most part of oriental music (the echo of which resounds more than once in this record, not only for the use of the Turkish zurna) - but the "typically" (psychedelic) rock development of such harmonic progression is undoubtedly original. But we are not in front of a mere style exercise. Harmoniously tangled in cascading dissonances, the drunken rhymes enter the head and passionate from the very beginning, showing how much the focus is first and foremost on songs. As with any good rock record, in short. And now there are four more experiments planned by the band for 2017. We are ready, everything could happen.
[R.T.]

mercoledì 20 settembre 2017

Elder – Reflections of a Floating World


Elder – Reflections of a Floating World
(Stickman Records, 2017)

In un’epoca in cui la musica viene divorata compulsivamente e distrattamente, con l’idea che questa debba modellarsi alla nostra sensibilità (e non, invece, che sia la nostra sensibilità a maturare a contatto con la musica), Reflections of a Floating World è un album a suo modo rivoluzionario. E' infatti un disco che necessita di un’immersione profonda, con le porte della percezione ben spalancate, per poter assorbire il complesso oceano sonoro che lo caratterizza. Sei lunghi e contorti brani, vere e proprie barriere coralline di rock progressivo, all’interno dei quali è meraviglioso lasciarsi trasportare dalle correnti dei riff stoner. Ma ancor più straordinario è annegarvi dentro, nei momenti in cui si aprono di fronte a noi vasti panorami pinkfloydiani. In questi anni '10 in cui gli artwork sono minuscoli files jpeg che fungono da sfondo nel nostro smartphone mentre ascoltiamo gli mp3, prendere in mano il vinile di Reflections of a Floating World, scartarlo, annusarlo, estrarre le buste e, prima ancora di aver messo il disco sul piatto, entrare in quel mondo galleggiante disegnato in copertina, può sembrare un gesto nostalgico e "moralista" riguardo il tempo presente. Eppure la freschezza delle sue canzoni dimostra quanto questo richiamo ad un modo di vivere la musica tipico degli anni '70 non abbia niente di revivalistico. La personalità degli Elder è molto più solida di quanto possa percepire un ascoltatore superficiale che si limiti a riconoscere la frenesia chitarristica degli High Tide o le aperture melodiche di Nektar e Camel. Gli Elder non si oppongono al presente. Nell’istintività della loro fragorosa cascata di note c’è tutta la fantasia e la strabordante energia di un tempo attuale e presente. Tutto l’impeto del “qui e ora”, che si abbatte come un’onda sugli scogli del passato, ne assorbe l’essenza e poi si vaporizza in schizzi imprevedibili e irripetibili. Essere sulla riva di questo mondo galleggiante, ed essere travolti da quest'ondata, farà maturare la nostra sensibilità, e noi stessi.
[R.T.]
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Elder – Reflections of a Floating World
(Stickman Records, 2017)

In an era when music is devoured compulsively and distractedly, with the idea that music should be shaped by our sensitivity (and not, on the contrary, that our sensitivity should mature through music), Reflections of a Floating World is a revolutionary album in its own way. It is an album that needs a deep immersion, with wide open doors of perception, to absorb the complex sonic ocean that characterizes it. Six long contorted tracks, real coral reefs of progressive rock, within which it is wonderful to be carried away by the currents of the stoner riffs. But even more remarkable is to drown into them when vast pinkfoydian views open themselves in front of us. In these 10s where artwork is reduced to tiny jpeg files in our smartphone while listening to mp3s, it may sound like a nostalgic and "moralistic" act towards the present time to take the vinyl of Reflections of a Floating World in your hands, discard it, sniff it and, even before putting it onto the turntable, enter the floating world pictured on its cover. Yet the freshness of its songs shows how much this appeal to a typically 70s way of living the music has nothing to do with revivalism. Elder personality is much more solid than a superficial listener - who merely acknowledges High Tide guitar frenzy or Nektar and Camel melodic openings - may perceive. Elder do not oppose the present. In the impetuosity of their roaring waterfall of notes there is all the creativity and the overflowing energy of a current and present time. Breaking like a wave on the rocks of the past, all the impetus of "here and now" absorbs its essence and then vaporizes in unpredictable and unrepeatable sketches. Being on the shore of this floating world, and being overwhelmed by this wave, will make our sensitivity mature, and ourselves too.
[R.T.]

lunedì 18 settembre 2017

Pixies - Bossanova


Pixies - Bossanova
(4AD, 1990)

La musica alternativa degli anni 90 non sarebbe stata la stessa senza i dischi che i Pixies avevano pubblicato nella seconda metà del decennio precedente. Con la loro miscela di zuccherosa dolcezza melodica, ironia folle e chitarre aspre e dissonanti, e con l’alternanza di quiete ed esplosioni noise, le caramelle acide confezionate dalla band saranno prelibata ispirazione per l’universo alternativo che di lì a poco diventerà mainstream. Un attimo prima che questa esplosione abbia luogo, cambiando gli equilibri tra rock indipendente e rock da classifica, i Pixies pubblicano il disco nel quale il confine tra pop e sperimentazione è più labile - sorta di premonizione di ciò che avverrà nel panorama musicale dell’immediato futuro. Se i dischi precedenti avevano la loro particolarità nei contrasti (volutamente stridenti), in Bossanova tutto appare in perfetta simbiosi. Riverberi surf e cavalcate metal si abbinano armoniosamente nella iniziale Cecilia Ann (cover dei Surftones), così come infantili cantilene ossessive si fondono con naturalezza ad accenni di dissonanza e a spigoli elettrici di rumore in The Happening. Rispetto ai due dischi precedenti le melodie si fanno meno sbilenche e, pur mantenendo un retrogusto agrodolce, risultano più morbide e sognanti. La band di Boston mette qui a punto la ricetta delle sue caramelle: forse non così destabilizzante e stupefacente come in passato (e per questo meno apprezzata dai fan di vecchia data), ma più digeribile e gustosa per un pubblico ormai pronto all'impasto di melodia e rumore.
[R.T.]

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Pixies - Bossanova
(4AD, 1990)

90s alternative music wouldn't have been the same without the albums Pixies published in the second half of the previous decade. With their mixture of sugary melodic sweetness, crazy irony and sharp dissonant guitars, and with the alternation of quiet and noise explosions, the acid candies packed by the band will be delicious inspiration for the alternative universe that will soon become mainstream. A moment before this explosion takes place, changing the balance between independent rock and chart rock, Pixies publish the record in which the border between pop and experimentation is more labile - kind of premonition of what will happen in the musical scene of the immediate future. If the previous albums had their main feature in (deliberately discordant) contrasts, in Bossanova everything appears in perfect symbiosis. Surf reverbs and metal rides harmoniously combine in the initial Cecilia Ann (Surftones cover), as well as infantile obsessive lullabies merge naturally with hints of dissonance and electric noises in The Happening. Compared to the previous two albums, melodies become less crooked and, while maintaining a bittersweet aftertaste, they are softer and more dreamy. The band from Boston fine tunes the recipe for its candies: perhaps not as destabilizing and amazing as in the past (and therefore less appreciated by old-time fans), but more digestible and tasty for an audience now ready for the mix of melody and noise.
[R.T.]

mercoledì 13 settembre 2017

The Black Angels – Death Song


The Black Angels – Death Song
(Partisan Records, 2017)

Sono trascorsi 50 anni dalla pubblicazione di Velvet Underground & Nico e dai feedback tenebrosi di The Black Angel’s Death Song. Mezzo secolo dopo i Black Angels rendono esplicito omaggio ad una delle loro principali fonti di ispirazione, intitolando il loro quinto disco Death Song. La band di Austin ha da sempre nutrito la propria musica di citazioni e richiami all’epoca d’oro della psichedelia (oltre alla band di Lou Reed, anche 13th Floor Elevators, The Doors e primi Pink Floyd) aggiungendovi però contorni neopsichedelici, capaci di renderla moderna e contemporanea, fino a diventare, lei stessa, uno dei principali punti di riferimento per gli amanti delle sonorità lisergiche del nuovo millennio.
Ormai matura, la creatura di Alex Maas tratteggia un disegno che non possiede più i colori roventi del mezzogiorno di fuoco di alcuni dischi del passato, bensì i colori caldi e avvolgenti del tramonto. Nuove sfumature, più tenui rispetto al passato, ma non per questo meno affascinanti. Le cattive vibrazioni generate dal gruppo in quest'ultimo disco assumono le forme di canzoni immediate e lineari, ma al tempo stesso emanano atmosfere desolate e desertiche, per niente “facili” o “piacevoli”. Nelle malinconiche e toccanti ballate (Half Believing, Life Song) la band evidenzia quanta disillusione e sconforto abbia colto quell'aspide che prima scivolava combattivo tra le rocce del deserto texano. Il groove ipnotico di Phosphene Dream appare solo a tratti, come un fantasma in un vecchio paese del selvaggio west abbandonato a sé stesso. Eppure, in alcune  cavalcate elettriche (I’d Kill For Her, I Dreamt), il vecchio fantasma viene evocato in tutta la sua forza. Ma forse è proprio nei contorni sfumati dei brani più introspettivi, e nella loro capacità di tracciare nuovi sentieri nella carriera della band, che Death Song si conferma l'ennesima avvincente prova dei Black Angels. Crepuscolare e disincantato, ma mai stanco, questo è il disco di una band la cui maturità non consente più atti di rivolta, bensì meditazioni adulte e riflessive. 
[R.T.]
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The Black Angels – Death Song
(Partisan Records, 2017)

It's been 50 years since the release of Velvet Underground & Nico and the dark feedbacks of The Black Angel's Death Song. After half a century The Black Angels pay an explicit tribute to one of their main sources of inspiration, giving the name Death Song to their fifth record. The band from Austin has always nourished its music with mentions and references to the golden age of psychedelic rock (in addition to Lou Reed band, also The 13th Floor Elevators, The Doors and the first Pink Floyd), adding to it neopsichedelic contours capable of making it modern and contemporary, becoming itself one of the main landmarks for lysergic sounds lovers of the new millennium. 
By now mature, Alex Maas creature sketches a drawing that no longer has the hot midday colours of some records of the past, but the warm and enchanting colours of the sunset. New shades, more subtle than in the past, but no less fascinating. The bad vibrations generated by the band on this last record take on the forms of immediate and linear songs, but at the same time emanate desolate and deserted atmospheres, no at all "easy" or "enjoyable". In the melancholy and touching ballads (Half Believing, Life Song) the band highlights how much disillusionment and discomfort have seized the asp that, combative, used to sneak among the rocks of the Texas desert. The hypnotic groove of Phosphene Dream appears only at times, like a ghost in an old wild west village abandoned to itself. Yet, in some electric rides (I'd Kill For Her, I Dreamt), the old ghost is evoked in all its strength. But maybe it's exactly in the more veiled contours of the most introspective songs, and in their ability to trace new paths in the career of the band, that Death Song proves to be another Black Angels compelling work. Crepuscular and disenchanted, but never worn out, Death Song is the album of a band whose maturity does not allow riot acts anymore, yet adult and reflexive meditations.
[R.T.]

lunedì 11 settembre 2017

Sanctuary - Into the Mirror Black


Sanctuary - Into the Mirror Black
(Epic, 1990)

Forse l'ispirazione artistica che fece di Seattle il centro del rock tormentato degli anni '90 è nascosta nella posizione periferica di questa città, in contrasto con gli epicentri del rock americano. Non solo il grunge, ma anche l'heavy metal classico ha espresso a Seattle le sue visioni più introspettive, distanti dal mood della musica degli anni '80. Se i Queensrÿche sono stati i padri di questo ramo meditativo del metal, i Sanctuary sono stati sicuramente i loro figli. Secondo album dei Sanctuary, Into the Mirror Black esprime una componente gotica e malinconica (primo step evolutivo verso la musica dei Nevermore) che rende più complesse e profonde le radici tradizionalmente heavy metal della band. Melodie epiche sono qui offuscate da un velo di oscuro romanticismo che rende Into the Mirror Black tanto riflessivo quanto ogni altro album concepito nelle periferie delle mappe rock degli anni '80.
[R.T.]

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Sanctuary - Into the Mirror Black
(Epic, 1990)

Maybe the artistic inspiration that made Seattle the center of the tormented rock of the 90s is hidden in the peripheral position of that city, in contrast with the epicenters of American rock. Even classical heavy metal, not only grunge, expressed in Seattle its most introspective visions, away from the mood of the 80s music. If Queensrÿche were the fathers of this meditative branch of metal, Sanctuary were certainly their sons. Second Sanctuary album, Into the Mirror Black expressed a gothic and melancholic component (first evolutive step towards Nevermore music) that made more complex and deeper the traditional heavy metal roots of the band. Epic melodies are here tarnished by a veil of dark romanticism that made Into the Mirror Black as much thoughtful as any other album conceived in the peripheral position of 80s rock maps.
[R.T.]

giovedì 7 settembre 2017

At the Drive In - In ter a li a


At the Drive In - In ter a li a
(Rise Records, 2017)

Fermo immagine. Due ragazzetti secchi come un uscio, sospesi in aria, entrambi con un cespuglio di capelli che in confronto Renè Higuita era calvo. Uno con una chitarra lanciata in cielo, l’altro con il cavo del microfono arrotolato alla gola come un serpente costrittore. Energia pura. Insieme a loro una sezione ritmica che è adrenalina fatta ritmo, e una seconda chitarra che si attorciglia alla prima, inseguendola, superandola, dissociandosi per poi diventare una cosa sola con l’altra.

Da quel fermo immagine sono passati 17 anni, e sarebbe folle illudersi che l’atterraggio dei due ragazzetti sia elastico come ai tempi in cui Relationship of Command si impose come uno dei migliori dischi rock degli anni 2000. E non solo perché quella seconda chitarra non è più impugnata da Jim Ward.

Prima che Cedric Bixler Zavala e Omar Rodríguez-López tocchino terra, in quel lasso di tempo che può durare 1 secondo o 17 anni, è successo di tutto, e in ogni direzione. Eppure l’atterraggio è un disco che riparte esattamente da quel fotogramma che ritraeva una band sospesa in aria, all’apice creativo, ed è stupefacente notare come l’energia elettrica liberata dall’impatto con il terreno, nel 2017, sia la stessa che aveva spinto la band in alto, per quanto questa regali scosse più controllate e mature, meno nervose e centrifughe.

Ciò che è sparito è la rabbia hardcore, quella furia adolescenziale che strabordava in continuazione da canzoni i cui confini erano continuamente in discussione. Il tempo è passato. Gli angoli si sono smussati, e la carta vetrata che grattava la pelle in canzoni come One Armed Scissor o Arcarsenal è diventata groove rotondo, vorticoso e torrenziale (splendido il lavoro di Paul Hinojos al basso e di Tony Hajjar alla batteria) e melodie perfettamente a fuoco (non dimentichiamoci che dopo le elefantiache metamorfosi sonore dei Mars Volta, delle quali si percepiscono barlumi nei liquidi intrecci chitarristici, Cedric e Omar hanno sviluppato la melodia nella sua più pura essenza nel sottovalutato progetto Antemasque). I due ragazzetti, e con loro gli altri indispensabili compari, sono cresciuti e probabilmente non sono più incazzati come un tempo: ma hanno ancora un'energia, una frenesia espressiva e una maturità compositiva tali da rendere Inter Alia un disco travolgente.
[R.T.]

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At the Drive In - In ter a li a
(Rise Records, 2017)

Still image. Two skinny boys suspended in the air, both with a bush of hair that compared to them René Higuita was almost bald. One with a guitar thrown in the sky, the other with the microphone wire twisted around his throat as a constrictor snake. Pure energy.  With them a rhythmic section that is adrenaline made rhythm, and a second guitar twisting itself onto the first, pursuing it, overtaking it, dissociating itself to become one with the other.

From that still image 17 years have passed, and it would be foolish to delude ourselves that the landing of the two boys is as elastic as when Relationship of Command imposed itself as one of the best rock albums of the 2000s. And not just because Jim Ward isn't the second guitar anymore.

Before Cedric Bixler Zavala and Omar Rodríguez-López touch earth, in that time period that can last 1 second or 17 years, everything happened in every direction. Yet the landing is an album that starts exactly from that frame showing a band suspended in the air, at its creative apex, and it is amazing to notice how the electricity released by the impact on the ground in 2017 is the same one that pushed the band up, even though its shakes are more controlled and mature, less nervous and centrifugal.

What has disappeared is hardcore anger, that teenage fury costantly overflowing from songs whose borders were constantly being debated. Time has passed. Things were smoothed over, and the sandpaper scratching the skin in songs like One Armed Scissor or Arcarsenal has become a round, swirling and torrential groove (amazing Paul Hinojos on bass and Tony Hajjar on drums) and perfectly focused melodies (let's not forget that after the elephant-like metamorphoses of Mars Volta, of whom it  is possible to perceive hints in the liquid guitar interweavings, Cedric and Omar have developed the melody in its purest essence in the undervalued Antemasque project). The two boys, and with them the other indispensable buddies, have grown up and probably are not as pissed off as once before: but they still have energy, expressive frenzy and compositional maturity that make Inter Alia an overwhelming album.
[R.T.]

lunedì 4 settembre 2017

Judas Priest - Painkiller

 Judas Priest - Painkiller
(Columbia, 1990)

L'heavy metal è pieno di stereotipi. Dalle tematiche dei testi ai suoni, dall'attitudine dei musicisti all'esasperazione tecnica, tutto è codificato per poter essere scioccante, esplicito ed eccessivo. Ciò che rende grandioso l'heavy metal è esattamente la sua leggerezza adolescenziale, la sua mancanza di pretenziosità, la sua energia priva di filtri. I Judas Priest sono l'heavy metal nella sua più pura essenza. Hanno contribuito a creare ogni cliché del genere, e ne sono orgogliosi. Dopo anni di successo e gloria, raccolsero tutta la loro energia in Painkiller: una colata di mostruoso metallo con suoni moderni e potenti, caratterizzati da violenza distruttiva e grandiose melodie. Pubblicato proprio un attimo prima della scomparsa del metal classico, Painkiller è uno degli apici del genere: una corsa in moto ad alta velocità, che possiede la brillantezza dell'acciaio, l'odore del gasolio e il rombo del motore.
[R.T.]
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Judas Priest - Painkiller
(Columbia, 1990)
 
Heavy metal is full of stereotypes. From lyrical themes to sounds, from musicians’ attitude to technical exasperation, everything is codified in order to be shocking, explicit and excessive. Its teenage naivety, its lack of pretentiousness and its unfiltered energy are exactly what makes heavy metal great. Judas Priest are heavy metal in its purest essence. They contributed to create every cliché of the genre, and they are proud of it. After years of success and glory, they gathered all their energy in Painkiller: a monstrous metal meltdown with modern and powerful sounds, characterized by destructive violence and great melodies. Published just before classic heavy metal disappearance, Painkiller is one of the apex of the genre: an high speed ride on a motorbike, with the brilliance of the steel, the smell of gasoline and the roar of the engine.
[R.T.]

venerdì 1 settembre 2017

Disintegrate Your Ignorance Fest 2017 – Day 3


Disintegrate Your Ignorance Fest 2017 – Day 3
Tau Cross + Macabre + Birds in Row + Marnero + Zeit + Mercy Ties + Restos Humanos
06.08.2017 - Giavera del Montello (TV)

Che DYI sarebbe senza tornado e diluvio universale? Almeno un giorno di festival deve essere "funestato" dal maltempo per mantenere le buone tradizioni. Che la giornata volga all’apocalisse lo si capisce da quando, nel bel mezzo del pranzo che alla birreria Pedavena a Feltre, si alza un vento mostruoso che solleva una tempesta di polvere, e, prima che la pioggia si scateni, tutti i clienti della birreria (noi compresi!) si impegnano a tenere fermo il tendone sopra le proprie teste, affinché questo non venga spazzato via. Più o meno in contemporanea, lo stesso film è in scena a Giavera del Montello. Memori del disastro dell’anno precedente, gli organizzatori del festival decidono così di correre subito ai ripari, spostando tutti i concerti in programma all’interno dell'adiacente Benicio Live Gigs.

Entriamo sulle prime note dei Restos Humanos. Il trio ci regala una bordata di death metal vecchia scuola, grezzo e maligno, con qualche accenno di grindcore ignorante. Forse ci facciamo trarre in inganno dalla provenienza geografica del cantante (Colombia). O forse la violenza sporca e perversa tipica del death metal sudamericano è davvero presente nella loro musica. Comunque sia, davvero non male come antipasto!
Intanto fuori splende il Sole, quasi a prendersi gioco delle precauzioni prese dagli organizzatori. Ma chi conosce l’instabilità metereologica del Montello, sa che non si può mai cantar vittoria.

I Mercy Ties, che in scaletta erano previsti come band di apertura, salgono invece sul palco per secondi, a causa dell’ondata di maltempo che li ha rallentati lungo la strada. Il loro post hardcore è caratterizzato da accelerazioni improvvise e continui cambi di direzione, quasi math rock. Ipercinetici, non solo musicalmente, ma anche dal punto di vista del loro atteggiamento, saltano e scalpitano in continuazione, senza nessuna intenzione di tenersi dentro la loro energia. A tratti questa continua dimostrazione di “incontinenza energetica” risulta un po’ forzata, ma musicalmente sono davvero un uragano.

I veneziani Zeit innestano un cantato dalle radici death metal in un contesto musicale affine al post hardcore più nervoso. Le coordinate sono simili a quelle del gruppo precedente, ma il tutto suona più calibrato, equilibrato e diretto, meno imprevedibile e fantasioso. Molto bravi.
Nel frattempo nell’area all’aperto sono state allestite nuovamente le distro dei vinili, nella speranza che il maltempo sia davvero un ricordo. Ma i nuvoloni neri in avvicinamento dicono il contrario, e infatti…

Mentre i Marnero si apprestano ad iniziare, i primi goccioloni iniziano a cadere, e nell’arco di trenta secondi tutto il pubblico è all’interno del locale. Ecco, il suono della Malora. Primo riff, e si scatena la bufera, tante volte raccontata dalla band bolognese nei suoi testi. Tuoni, fulmini e diluvio fuori. Tuoni, fulmini e diluvio musicale dentro. La potenza delle canzoni di JD Raudo e soci non è solo quella delle valvole dei loro ampli e dei riff che travolgono l'ascoltatore. La loro potenza è anche quella delle parole e di quella vena di melodie che percorre i loro pezzi, e che non può che scuoterti dentro. Bellissimo anche il nuovo pezzo. E quando si arriva alla fine del set, la Malora vola via e torna il sereno, quasi che la bufera fosse parte del concerto. Grandissimi.

E dunque è tempo dei francesi Birds in Row. Il loro concerto è sferzante, veloce e violento. Suonano sì e no mezzora, ma in quella mezzora concentrano, comprimono e sprigionano una furia, un'energia ed una bravura davvero impressionanti. C'è tutta l'essenza dell'hardcore,ma anche molti guizzi che escono dal seminato ed aprono a spazi di respiro e di melodia, contrapposti a ritmiche convulse e nervose. Davvero notevoli.

Il passaggio ai Macabre è quindi un po' brusco e spiazzante. La cosa più incredibile di questo trio di Chicago è l'incontenibile voglia di essere su quel palco (così come su qualsiasi altro palco, si direbbe!) e l'invidiabile - e per nulla scontato!- affiatamento. 32 anni di carriera insieme, senza alcun cambio di formazione sono qualcosa di pressoché unico, come è in un certo senso unico il loro stile, che innesta le influenze più improbabili su una base fondamentalmente thrash metal. Humour nero e assurdità assortite! Al di là del lato puramente musicale, è impossibile non divertirsi insieme a loro, che ricambiano l'entusiasmo del pugno di affezionati che canta tutte le canzoni in scaletta e che - acclamati a gran voce - regalano anche un bis finale (che non vedevano l'ora di suonare!).

Dopo la consueta cena vegana, è il momento dei Tau Cross. L'aspettativa per questa band era alta, ed è forse per questo che alla fine non restiamo così entusiasti. Che la band sia tecnicamente di alto livello è indubbio. E sicuramente nella loro proposta cercano di fondere i diversi background dei suoi membri (tra questi Away dei Voivod e Rob Miller degli Amebix). Ma la nostra impressione è che la somma delle parti non superi il valore dei singoli componenti. Di fatto, il combo sotto l'illustre Relapse propone un metal piuttosto classico, con qualche variazione sul tema legata alla stratificazione delle influenze personali, tendenzialmente in direzione post punk e industrial. La scelta dei suoni, ultra-compressi, tende poi a nostro avviso a penalizzare anche il godimento delle parti più riuscite. Su tutto spicca la voce di Rob (The Baron) Miller, che è forse il tratto più distintivo della band. Ammettiamo che ci resta un po' di amaro in bocca, perché i Tau Cross erano senz'altro una delle band che più ci incuriosiva in questo edizione del DYI.

Si chiude così questa 3 giorni nel Montello. Carica di caldo e sudore, ma anche sferzata da una mezza tempesta. Ricca ed eterogenea nelle band in scaletta, con tante conferme, una mezza delusione e molte interessanti scoperte. Il bilancio è positivo e, se è vero che non c'è due senza tre, attendiamo con ansia il bill della prossima edizione!
[E.R. + R.T.]




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Disintegrate Your Ignorance Fest 2017 – Day 3
Tau Cross + Macabre + Birds in Row + Marnero + Zeit + Mercy Ties + Restos Humanos
08.06.2017 - Giavera del Montello (TV) 

What a DYI would be without a tornado and a flood? At least one day must be "damaged" by bad weather in line with tradition. That the day is turning to the apocalypse is clear when, in the midst of the lunch at Birrificio Pedavena in Feltre, a monstrous wind raises a dust storm, and before it starts to rain, all the customers of the brewery (including the two of us!) commit to hold the tent over their heads so that this is not wiped away. More or less at the same time, the same film is on stage at Giavera del Montello. Mindful of last year's disaster, the festival organizers decide to run right away to shelter, moving all the scheduled concerts indoor, inside Benicio Live Gigs.

We enter on the first notes of Restos Humanos. The trio plays an old school death metal, crude and malicious, with some hint of raw grindcore. Perhaps we are misled by the singer's geographical origin (Colombia). Or perhaps the dirty perverse violence typical of South American death metal is really present in their music. Anyway, really not bad as an appetizer!
Meanwhile, the Sun shines out, almost as if it was making fun of the precautions taken by the organizers. But who knows weather instability of Montello, he knows that one can never declare victory.

Mercy Ties, which were expected to be opener of this last day, get on the stage as second band, due to the bad weather causing them a delay while on the road to the venue. Their post hardcore is characterized by sudden accelerations and continuous changes of direction, almost in math rock style. Hypercinetics, not only musically, but also from the point of view of their attitude, jump and pace up and down continuously, without any intention of keeping inside themselves their energy. At times, this ongoing demonstration of "energy incontinence" seems a little forced, but musically they really are a hurricane.

The Venetian Zeit insert vocal lines of death metal roots in a musical context similar to the most nervous post hardcore. The coordinates are similar to those of the previous band, but the whole sounds more calibrated, balanced and straightforward, less unpredictable and imaginative. Really effective.
In the meantime, distros have been re-set up in the outdoor area, hoping the bad weather is really gone away. But the black clouds approaching say the opposite, and indeed...

As Marnero are about to play, the first drops begin to fall, and within thirty seconds all the audience is inside the venue. Here is the sound of Malora. First riff, and the storm (so many times told by the band from Bologna in its lyrics) rages. Thunders, lightnings and flood outside. Thunders, lightnings and musical flood inside. The power of the songs by JD Raudo & co is not just in the tubes of their amplifiers and in their riffs overwhelming the listener. Their power is also in their words and in that vein of melody running through their songs, and that can only shake you in. Also their new track is beautiful. And when they come to the end of the set, Malora flies away and the clear returns as if the storm was part of the concert. Amazing.

And so it is the time of the French Birds in Row. Their concert is loud, fast and violent. They play more or less half hour, but in that half hour they concentrate, compress and release a really awesome fury, energy and skill. There is all the essence of hardcore, but also many flashes out of the box, opening to spaces of breath and melody, opposed to convulsive nervous rhythms. Really impressive.

The passage to the Macabre is a bit abrupt and flooring. The most amazing thing about this Chicago trio is the irrepressible desire to be on that stage (as well as any other stage, you would say!) and the enviable - and not at all to be taken for granted - understanding and synergy. 32 years of career together, with no change in the line up, are something almost unique, as it is their style in a certain sense, inserting the most unlikely influences on a fundamentally thrash metal basis. Black humor and assorted absurdities! Beyond the purely musical side, it's impossible not to have fun with them, who rejoice the enthusiasm of the fist of fans singing all the songs of the setlist and who - loudly acclaimed - also play an encore (they were looking forward to play!).

After the usual vegan dinner, it's time for Tau Cross. The expectation for this band was high, and this is probably the reason why we are not so satisfied in the end. The high technical level of the band is undeniable. And certainly in their music they try to blend the different backgrounds of the members (among these Away - Voivod - and Rob Miller - Amebix). But our impression is that the sum of the parts does not exceed the value of the individual components. Indeed, the combo published by the famous Relapse proposes a rather classic metal, with some variations on the theme related to the stratification of personal influences, tendentially in post-punk and industrial direction. Furthermore, in our view, the choice of ultra-compressed sounds tend to penalize even the enjoyment of the most successful parts. On top of everything stands the voice of Rob (The Baron) Miller, which is perhaps the most distinctive feature of the band. We admit that we feel a bit disappointed, because Tau Cross were certainly one of the bands we were most curious about in this DYI edition.

Thus it ends this three days in Montello. Rich in heat and sweat, but also splashed by a half storm. Rich and heterogeneous in the bands, with many confirmations, a half disappointment and many interesting discoveries. The balance is positive and, if good things come in three, we are looking forward to the next edition bill!
[E.R. + R.T.]